Assente dal blog e libero dagli impegni regionali, mi sono ritirato qualche giorno a San Vito lo Capo, una spiaggia che è la quintessenza del Mediterraneo. Durante il mio soggiorno era in corso il Cous cous fest, una manifestazione che celebra il piatto locale, la sua tradizione e le sue ramificazioni nelle diverse regioni in cui ha trovato ospitalità. Il cous cous è una bella metafora per illustrare la questione dell’identità – spesso interpretata, a cominciare da Beck, ricorrendo a immagini gastronomiche: piatto base e ‘sostrato’ il cous cous si declina e raffina in molteplici direzioni: le modalità della sua preparazione di ancestrali origine e significato sono simili tra loro, eppure diverse, cambiando di volta in volta la grana e la dimensione, le spezie con cui lo si arricchisce e, appunto,  gli ingredienti che lo completano, dal montone alle verdure, dal pollo al pesce (quest’ultimo, tipico di San Vito). Ecco allora che in questa piccola località del Trapanese è possibile riscoprire il significato del Mediterraneo, della sua vocazione e della sua cultura, che è fatta di tante culture diverse, eppure da una sola che da esse proviene. Secondo la tradizione il cous cous (l’etimo probabilmente è greco, per dire semola) sarebbe nato alla corte di Salomone per curare le sue pene d’amore per la regina di Saba e la conseguente inappetenza. Il cous cous parla di amore, di cura e di pace. E dalla sua ‘patria’, le terre del Maghreb (che in arabo vuol dire occidente, guarda un po’), il suo messaggio culinario sarebbe arrivato un po’ ovunque. I pescatori trapanesi si piccano di essere andati loro a scoprirlo e di averlo impreziosito con gli elementi della propria terra, senza aspettare che il cous cous arrivasse per conto suo. E ne vanno fieri. Chi pensa che l’identità non cambi mai e non si trasformi (parlando ovviamente innanzitutto della propria), si sbaglia e dimentica un po’ troppe cose. Un piatto di cous cous può essere utile a ricordargliene alcune. Anche questo è il bello di San Vito.

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