Avevo accennato in un post di qualche giorno fa alla Arendt e al suo La menzogna in politica. E’ il caso di riprenderne alcuni contenuti. Il saggio è del 1972 (Marietti lo ha appena pubblicato) e prende le mosse dal commento ai Pentagon papers, documenti riservati del Pentagono, nei quali si ammetteva la perfetta inutilità della guerra in Vietnam e della strategia americana nel Sudest asiatico. Leggendolo ci si rende conto delle incredibili analogie con l’attuale situazione irachena e di un dato che è divenuto, negli ultimi anni, decisivo per la vita delle nostre democrazie: le ‘futili’ questioni di immagine sono più importanti non solo della ragionevolezza delle iniziative politiche, ma financo della Realpolitik. E’ più importante, cioè, “salvare la faccia” che dare risposte e soluzioni credibili o, ancora, giustificare una politica, piuttosto che prendere atto degli effetti negativi a cui essa ha portato. C’è una premessa teorica da fare: è l’immaginazione che ci consente, dice Arendt, di «cambiare i fatti» ed è la stessa immaginazione che ci porta «alla deliberata negazione della verità fattuale». La menzogna è, per certi versi, coessenziale alla politica, in quanto parte dell’azione e facoltà della libertà di agire. Ma è proprio questo che ci fa riflettere: come precisa la curatrice, Olivia Guaraldo, «l’antitesi politicamente più pericolosa non è quindi quella che oppone il vero al falso (distinzione logica) ma quella che sostituisce il reale al fittizio»: un processo che consiste «nella deliberata volontà di trattare le verità di fatto – le numerose e dettagliate informazioni che provenivano dal lavoro di intelligence sul campo – come se fossero opinioni, al fine di accreditare una teoria che con quei dati di fatto cozzava prepotentemente». Ecco, comparire la politica dei problem-solver di professione, rastrellati nelle università e destinati a think tank dove mettere in campo le proprie game theory, in una logica auto-normativa e, quindi, perfettamente auto-rappresentativa. «Non avevano bisogno dei fatti né di alcuna informazione; avevano una “teoria” e tutti i dati che non vi si adattavano venivano ignorati o negati»: la pubblicità kantiana (e, oggi, habermasiana) dell’opinione in politica, va a farsi benedire. E si rende possibile quel processo, mirabilmente illustrato da Bachelard, della perfetta confusione e sostituibilità tra realtà e fiction (l’11 settembre, per esempio, oppure, all’inverso, le famose “armi di distruzione di massa” che non c’erano, ma proprio perché non c’erano, ci sono state, eccome, nelle vicende del mondo degli ultimi anni). Rimane così solo il problema dell’immagine, che per altro è lontana dal sovvertire il dato politico (leggi: vittoria di Bush, autunno 2004). Come disse il McNamara ripreso da Arendt: «L’immagine (picture) della più grande superpotenza del mondo che uccide o ferisce gravemente un migliaio di civili alla settimana, mentre cerca di sottomettere una piccola nazione arretrata sulla base di una questione i cui meriti sono altamente controversi (hotly disputed), non è delle più belle». L’immagine, appunto.
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