«Rendendo visibile il predatore, l’intruso, lo sconosciuto di cui abbiamo paura e che se ne sta in agguato nell’ombra […] portando l’oggetto della nostra paura alla luce del giorno, imitandone gli attacchi immmaginati e il potere, [egli] può essere controllato, o così si spera […]. In altre parole, la spinta a definire e limitare la «casa», a dare un nome e circoscrivere la dimora e l’ambiente al quale apparteniamo e nel quale ci sentiamo al sicuro, porta a dare un nome e a definire altre cose – e persone – là fuori, oltre la recinzione, dall’altra parte del filo spinato».
Marina Warner citata in Joanna Bourke, Paura. Una storia culturale, Laterza.
Inutile aggiungere con Bourke che «il processo di identificazione di un estraneo – qualcuno «dall’altra parte del filo spinato» – ha conseguenze nefaste». E’ banale: com’è banale affermare che la paura sia un fatto eminentemente culturale. L’unica cosa non banale da ricordare è che forse dovrebbero rammentarlo i leader del futuro Pd, anche qui al Nord, dove è più facile il misunderstanding e la concessione ai luoghi comuni sull’argomento.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti