Esiste una prospettiva che consente di interpretare il mondo in cui viviamo senza che ci si abbandoni alla sfiducia e alla paura. Si trova indicata nel volume recentemente pubblicato da Laterza, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei di Kwame Anthony Appiah. All’insegna del principio secondo il quale è più importante "il collegamento che si produce non attraverso l’identità ma malgrado la differenza", Appiah presenta un cosmopolitismo che ha radici e sapore antichi (dagli Stoici a Terenzio), un’impronta liberale e una prospettiva aperta, che guarda senza ambasce alla diversità come elemento essenziale di un mondo popolato in misura prevalente da estranei. Un dato di realtà con il quale fare i conti, che vede l’omogeneità ricercata come un elemento di costrizione e l’affermazione di differenze inconciliabili non solo come un pericolo, ma come un vero e proprio errore concettuale. Così come quello di ragionare in termini banalmente astratti, senza considerare che gli estranei sono sempre e comunque estranei particolari che hanno in qualche modo a che fare con noi e con i quali possiamo entrare in comunicazione senza per questo rinunciare a noi stessi o obbligandoli a diventare come noi (è quello che Appiah definisce come "primato della pratica" sui formalismi delle teorie in campo morale). Universalità e differenza fanno parte di un vocabolario che il cosmopolita non vuole imporre, ma mettere a disposizione: perché importante è il dialogo, piuttosto che il consenso finale. Una prospettiva utile per ragionare sul mondo in cui viviamo, allontanandosi dagli essenzialismi e dalle conclusioni affrettate, da chi vive di conflitti senza averli indagati nel profondo, come accade quasi sempre nel dibattito politico di uno dei paesi oggi meno cosmopoliti del pianeta. Il nostro.
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