«We are a people of improbable hope». Già. Duecentomila persone. Giovanissime rispetto agli abituali partecipanti alle manifestazioni politiche. Volti di tutti i paesi del mondo. Di fianco a me un’americana di origini guatemalteche, un gruppo di fan dell’Angola, tedeschi du pays e d’adozione, addirittura Mollica che esibiva una maglietta con l’«improbable claim» che recitava: Luino per Obama. Un milione di macchine fotografiche, videocamere, telefonini, qualcuno addirittura con la webcam del portatile. La Grosser Stern che dall’alto, l’avesse vista un angelo de Il cielo sopra Berlino, sarebbe apparsa piena di teste e di colori, fino in fondo al cannocchiale del Tiergarten, fino a quella porta di Brandeburgo che il governo tedesco ha negato a Obama solo perché sarebbe stato troppo, forse anche per Obama. Una rilucente vittoria alata, in cima alla Siegessäule, la colonna della vittoria, beneaugurante. Un Obama impeccabile. Di forte impatto. Breve, brevissimo, che se tutti capissero che venti minuti sono sufficienti per fare qualsiasi cosa, la politica cambierebbe, anche da noi. Obama c’è riuscito: voleva essere un Kennedy ai tempi della globalizzazione. Preoccupato di riprendere i concetti espressi quarantacinque anni fa, in una piazza berlinese, da un presidente che parlava di cittadinanza universale, della Berlino simbolo della lotta per la libertà, di un mondo che si interrogava intorno al proprio destino. Ieri come oggi. «This is the time», dice Obama, «our time». Ed è straordinario notare come la folla applauda soprattutto il passaggio dedicato al Darfur, di cui nella nostra politica non si parla mai, e non è un caso, né in un senso, né nell’altro. Un Obama alle prese con la diversità (la propria, quella vissuta da tanti cittadini dalla pelle scura che finalmente, notava Marcello, hanno un leader positivo al quale riferirsi), che affronta il tema complesso dei rapporti tra gli Usa e il "resto del mondo", che tenta la strada di una nuova alleanza con l’Europa, che passi attraverso un reciproco riconoscimento, proprio quello che da Bush, in questi anni, è stato negato, o rovesciato, grazie ai suoi tristi amici locali. Un mondo plurale e perciò unito è quello di cui ha parlato il candidato alla presidenza, qualificandosi come Weltbürger (così lo presenta la stampa tedesca questa mattina), e insieme promettendo al mondo di essere un presidente di tutti (ma proprio tutti) capace di rappresentarne il momento di difficoltà, sul terrorismo, sull’ambiente, sul disarmo, sulla crisi economica. La strada sarà lunga, ma siamo noi i padroni del nostro destino. Una parola su cui riflettere, con la quale la politica fa raramente i conti. Sarà per quello che ad applaudirlo c’eravamo noi (raggiunti da un gruppo di altri quattro ragazzi monzesi, che sono arrivati a Berlino in auto) e duecentomila persone, in maggioranza ragazzi, che volevano sentir parlare di futuro. Il loro. Il suo. Il nostro. Grazie, caro Obama. Non dimenticheremo Berlino.
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