Non so se a Roma, nelle auliche sedi del Partito democratico, abbiano mai sentito parlare di peer-to-peer e di prosumer. Sono parolacce, prese a prestito dal web 2.0. Significa che si deve rinunciare alle gerarchie e alle burocrazie troppo formali, per condividere (to share) le idee, le suggestioni, le proposte. Si parla tanto di un partito federale, quando forse è l’approccio soprattutto che andrebbe cambiato. Wittenberg è ai confini dell’impero. E come tale sente il problema in modo particolare. Lo stesso vale per i singoli iscritti, che da consumer dovrebbero diventare prosumer, essere messi, cioè, nelle condizioni di promuovere iniziative e di sostenere proposte, senza essere ritenuti esclusivamente destinatari delle decisioni altrui (dei vertici cioè, nazionali o regionali o provinciali che siano). Non è detto che un iscritto della provincia abbia meno da dire di un supermegadirigente nazionale, no? Lo stesso vale per il famoso partito-del-Nord (dov’è finito?) e per tante altre iniziative. Nate male, perché centralistiche, nel momento stesso della loro costituzione. Passiamo al peer-to-peer. Ci sono, tra i democratici, tanti prosumer. I presume.
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