Dario Franceschini si candida alla segreteria nazionale a partire da ottobre. È questo quello che non vi hanno detto i giornali rispetto all’assemblea dei circoli di sabato a Roma. Il segretario ha scelto di occupare lo spazio politico lasciato libero da Veltroni, attraverso un rapporto diretto e una “relazione sentimentale” con i circoli e con il popolo del Pd, trascurato fin troppo a lungo nella gestione politica di cui lo stesso Franceschini è stato (vice)protagonista. Una mossa che mette in difficoltà le vecchie burocrazie e che cambia completamente il nostro quadro politico: obiettivo del segreDario, un risultato discreto alle Europee (contenendo il più possibile il distacco dal risultato delle Politiche, un 27% potrebbe fare al caso suo) e un rinnovato rapporto con il nostro elettorato e, soprattutto, con il corpo più impegnato e militante dei democratici. Su posizioni più radicali del solito, Franceschini conduce finalmente il Pd, per ridargli credibilità e per evitare che Bersani si faccia largo all’insegna di una serpeggiante rifondazione diessina. Nessuno confermerà questa strategia, anzi, a precisa domanda Franceschini negherebbe con fermezza (fa parte della strategia), ma questo dato è lampante.
Lo schema dell’assemblea nazionale del 21 febbraio si è così rovesciato. Non più la difesa del gruppo dirigente, ma l’apertura alla base (seppure una certa base, molto precisa, potremmo dire ‘cooptata’). Non più una segreteria che interviene sull’emergenza, ma un segretario che costruisce la propria leadership con il concorso degli iscritti. Non più un mandato a termine, in cui fare le cose essenziali, ma fare le cose essenziali in previsione di un nuovo mandato, sulla scia di un consenso sempre più vasto. Il Pd ha dimostrato che “squadra che perde non si cambia”: perciò, soprattutto se la squadra perderà meno del previsto, nessuno si sognerà di cambiarla a giugno. Veltroni ci aveva provato, poi aveva smesso di farlo. Franceschini, probabilmente, ce la farà.
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