Dopo Pontida, Peppe Provenzano è stato a Pomigliano. E noi leggendolo, anche questa volta, ci siamo appassionati.
Ora, forse, non si farà più la Panda. Perché di una Panda si trattava – “tutto questo per una Panda”. Alla fine hanno perso tutti. Gli operai, come sempre, molto prima dello spoglio. Molto prima di Marchionne, che ha perso pure lui – molto meno, però. Lo si capiva al cambio turno, ai cancelli, quando intimiditi in tanti raccontavano sottovoce di andare a votare o di aver votato senza possibilità di scelta – e proprio scegliere significa votare. Hanno perso i giovani e hanno perso i “vecchi”. Ho letto su L’Unità l’orgoglio di Maria Capasso, di trentuno anni, che rivendica il suo NO. Leggo le analisi del Sole 24 Ore sullo strappo generazionale a Pomigliano, che schematico scrive: i giovani, con la famiglia alle spalle, per il NO; i “vecchi”, con la famiglia sulle spalle, per il SI. Le cose, il giorno e la notte del referendum, all’ingresso 2 del “Gianbattista Vico”, erano un po’ più complicate. Sono complicate sempre le cose, in questo nostro Paese, tra vecchi e giovani. Ma una cosa, alle dieci di sera, era chiara: alla fine hanno perso tutti, ché tutti e due avevano ragione. Il giovane trentenne che ha votato SI pensando ai suoi tre figli piccoli e alla moglie a casa e il signore sessantenne che ha votato NO, rivendicando la dignità operaia. Prestando volti e rabbie alle telecamere, il primo gli diceva – tanto a te che te ne frega? Tu ora vai in pensione… E l’altro – vergognati, pensa alle lotte che ho fatto per permettere a giovani come te di entrare in fabbrica… E altri, ancora – Sei sicuro, tu, con queste condizioni di lavoro, che godrai della pensione? E molti – Vedete come ci hanno ridotto? Alla guerra tra i poveri… E pochi – Smettetela, non litigate davanti ai giornalisti…
Chi ha vinto, poi, non si capisce nemmeno dall’esito del voto. Non si capisce, ed è forse la cosa che può importare meno. Provate a pensarci un momento. Facciamo dieci minuti – è troppo? Pensate a cosa sono dieci minuti nella vostra giornata. E poi provate a pensare di lavorare sette ore e mezza su linee meccanizzate concedendovi solo tre pause – ovviamente, «per riportare il sistema produttivo dello stabilimento Giambattista Vico alle migliori condizioni degli standard internazionali di competitività». Prima erano due pause di venti minuti, ora tre pause di dieci. Dieci minuti – o il cesso o la sigaretta – è troppo?
Provate a pensare alla vostra refezione. La chiamate così, voi, la refezione? Bene, con gli operai ai cancelli si parlava soprattutto della mensa. Della mezz’ora di mensa, scivolata a fine turno. Destinata allora ad essere saltata (una pausa dal lavoro in meno) e sacrificata per gli straordinari, per recuperare le perdite di produzione. Straordinari: 120 ore obbligatorie e non negoziabili, che possono arrivare fino a 200 ore. Tre settimane di lavoro, oppure cinque. Più delle ferie. Miracolosi, più che straordinari…
Ora dite pure: è la fatica del lavoro in fabbrica, ragazzo. La scopri adesso? È così, si sa. No, non si sa. Io non lo sapevo. Non conoscevo le parole. E ora non so davvero che importa chi ha vinto, se gli operai – tutti i sindacati degli operai – erano disposti ad accettare, col 18esimo turno, queste condizioni di lavoro. Questa “metrica del lavoro”, intitolata: WCM, Ergo-UAS.
Viciariello, membro del gruppo musicale operaio ex “Zezi” (frutto di una scissione – tra gli Zezi, per motivi stilistici), gioca con le parole: Ergo sta per “ergonomico”. Energumeno, dice lui che è alto un metro e mezzo. E che in catena di montaggio ha collezionato ferite e malattie. “Ci vogliono gli energumeni”, per queste condizioni di lavoro. E racconta: «Io sono fortunato. Vivo a Pomigliano e sono un RCL (ridotta capacità di lavoro, mansioni ridotte n.d.a.). Pensa ad un operaio di Pontecagnano Faiano (ce ne sono, che vengono da lontano, assunti ai tempi d’oro delle spartizioni democristiane) che, per essere alle sei meno un quarto al cancello dell’Ingresso 2, deve alzarsi alle tre e mezza del mattino, e deve lavorare alla catena (“la catena” è il titolo della sua canzone, del suo lamento) sette ore e mezza, e più spesso otto ore, dalle 6 alle 14, fermandosi solo tre volte, per dieci minuti. Pensaci, mi dice. La mensa è la cosa più grave, per uno che viene da lontano. Anche per me, per la verità. Io sono celiaco, e dopo una vertenza di un anno ho ottenuto nella mensa aziendale il menu completo per me. Costo più di tutti. E ci mangio ogni giorno».
Si parlava delle pause e della mensa, in effetti, ai cancelli. Dei tanti disposti ad accettarle (a rinunciarvi), in nome della produttività. E “tutto questo per una Panda”: quasi un’offesa, per operai memori, dopo lo scialo del passato, della bella e superiore produzione dei tempi più recenti, in era FIAT. Ma allora, se tutti erano disposti ad accettare tutto questo, cos’è che fa rivendicare il NO? Cos’è che quella parte di NO anche dietro il SI più convinto, di chi pure era cosciente di sottoporsi ad un “ricatto”? Cos’è, a fronte dei pronostici sul plebiscito, che rendeva così sicuri gli operai da dire – “vedrete la sorpresa”… Non si tratta solo di dire “chi sta alla catena, vota secondo la coscienza”. La coscienza, dei SI e dei NO, è quella di chi ha già perso; ma la dignità, dei Si e dei NO, va difesa. La dignità negata dalla propaganda aziendale e politica, dalla scostumatezza dei toni di Marchionne (uno che, dopo aver lasciato due mila persone nella disperazione a Termini Imerese, si permette di sbeffeggiarne la lotta), da chi, Ministro della Repubblica, ha voluto far passare lo “strappo” di Pomigliano come la giusta merce per dei “fannulloni”. Ci sono pure stati perditempo. Ma i troppi che con leggerezza a destra e manca lo pensano, si facciano una domanda: come si può essere fannulloni su una linea meccanizzata? Nei nostri uffici è facile tergiversare, dietro lo schermo di un computer, in pigrizie e curiosità. Ma alla catena – movimenti cronometrati al secondo, legati a cento altri movimenti di altri cento operai – come si può essere fannulloni?
Certo, la produttività. Lo dicono anche gli operai, più o meno come Marchionne. E non si tirano indietro – sono piuttosto pronti a tirarsi via. E con quella metrica, ergonomica o no, la malattia diventa una paura reale: ché, energumeno o no, la catena ti ammala. Certo, gli abusi del passato? Ci sono stati, e quasi tutti sono pronti a riconoscerli, a raccontarli: e allora sarebbe stato possibile trovare una via – maggiori controlli, ispezioni, severità – invece di affidare la tutela del diritto alla salute alla valutazione discrezionale di quadri sindacali e, in definitiva, della dirigenza, a cui spetterà il compito di stabilire se una malattia è “anomala” o no. Compito arduo, dilemma: è anomalo ammalarsi di lavoro – è normale ammalarsi di lavoro. Eppure, fin lì, fino a sostituire il medico con l’ingegnere e il capofila, sarebbero arrivati.
Allora la domanda è: perché la FIAT arriva alla provocazione di una “clausola di esigibilità” che mette in discussione – va bene la formula, solerte giuslavorista democratico, “mette in discussione”? – i diritti, “la legge”, come dicono ai cancelli. L’esercizio del diritto allo sciopero, per dire, a Pomigliano non ha conosciuto abusi. Non è leso, automaticamente, con l’accordo: è “messo in discussione”, nella disponibilità di una valutazione dell’azienda. Se ne deve parlare, insomma. Del resto, in fabbrica, se ne è sempre parlato: quante volte, in singolare anticipo sul prossimo mestiere di medico, alla dirigenza sarà scappato il consiglio a un operaio di mettersi in malattia durante le astensioni collettive dal lavoro – così, poi, la percentuale di partecipazione si abbassa, lo stabilimento fa la sua figura e l’operaio guadagna pane e companatico per la giornata… I consigli della dirigenza: ecco il filo rosso del proletariato mondiale. Filo diversamente rosso: che lega il “non suicidatevi” del contratto della Foxconn di Shenzhen e il “non ammalatevi” della FIAT di Pomigliano d’Arco. Quando si dice – i contratti che sono meglio della “legge”. Una legge potrebbe arrivare a tanto?
Tutto questo è stato sottoposto a referendum, a Pomigliano. Deroghe, forzature illegittime, nessun aumento salariale, di fronte al “ricatto” del lavoro. Perché, mio caro amico Marco Simoni, che scrivi su L’Unità un commento “responsabile” – in cui parli di “presunto ricatto” e posizioni “apodittiche” e ingiustamente “politicizzate” – che effetto ti ha fatto questo giorno in cui una democrazia da etichetta ha ricreato la facile illusione della scelta, la colpevole illusione di una proporzione ragionevole tra le poste in gioco?
L’irragionevolezza sfacciata della forzatura di Marchionne è tutta politica. E politicamente va affrontata. Il tema è il modello di sviluppo nel Mezzogiorno – se dopo l’affannoso e fallimentare inseguimento del modello di sviluppo del settentrione più avanzato, bisogna riposizionarsi, in modo sempre residuale, a inseguire, stavolta in apnea, il modello della Polonia, della Cina. Ma non è tema all’ordine del giorno.
L’ordine del giorno è la sproporzione indecorosa tra le parti, rivelata proprio dall’elemento per altri versi denunciato: l’esigibilità. Tutti gli operai lo sanno – i commentatori meno – e lo dicono anche i rappresentanti delle Organizzazioni sindacali per il SI che l’attuazione del sistema Ergo-UAS è tutta da verificare, che il 18esimo turno dipenderà dai livelli di produzione richiesti dal mercato. Dal mercato della Panda – si sarebbe trattato di una Panda. Dunque, ricapitolando: se l’operaio, in virtù del suo diritto di scioperò tutelato dalla Costituzione e dalla legge (Costituzione e leggi, per non dire la giustizia, insigne giuslavorista, servono proprio per la sproporzione tra i rapporti di forza, no?), viene meno ad una singola clausola, allora l’azienda si sente liberata; se viene meno l’azienda alle clausole, invece, quello è il libero mercato. Ricapitolando, il di più di aberrazione della vicenda: il sacrificio umano, di cui c’è bisogno per la produttività, accettato dagli operai, può darsi che non servirà; la compressione dei diritti, in parte inutile alle esigenze specifiche di produttività, invece, potrà servire. “Non si capisce”, dicevano ai cancelli, “si capisce bene”.
Ed ecco perché, caro Marco, a Pomigliano non si tratta di una trattativa sindacale – di trattativa, ormai è chiaro, ve n’è stata poca. La FIOM, in passato, avrà anche commesso i suoi errori. Ma si tratta di una questione “politica”: ed è possibile, è morale, che a doverla affrontare sia un operaio a cui viene detto che se vince il NO l’investimento nella sua fabbrica non si farà?
La politica dov’era, in questo Paese, il giorno del referendum? Dov’era nei giorni precedenti? Il Centrodestra, a partire dal sindaco di Pomigliano, ad insultare; il governo nazionale ad esultare per l’inaspettata coincidenza di interessi e di “visione” con Marchionne. (Con quella classe imprenditoriale miope fino all’imbarazzo, che è riuscita ad applaudire alla manovra più depressiva di Tremonti, per la contropartita misera sui diritti del lavoro, promessa e giurata da Sacconi. E la chiamano “economia sociale di mercato”, maledetti). E dov’era la più grande forza democratica del Paese? Assente, per mancanza di una posizione chiara, e persino di una posizione. Il caso è “unico”, “eccezionale”, “non esportabile”. “Ehi, solo per questa volta”: perdonatelo, questo partito non sa quello che dice. Eppure era presente, in fabbrica, con gli scritti di Pietro Ichino, l’insigne giuslavorista e Senatore del PD, fotocopiati nei reparti agli operai per indurli a più miti consigli: i consigli della dirigenza… Io e Diego Bianchi – siamo andati insieme a Pomigliano – abbiamo provato molta vergogna (più lui, però – ché i giornalisti presenti intervistavano come “l’unico dirigente del PD presente”). Vergogna per quel partito, che è il nostro e di tanti operai. E gli operai che, a un certo punto, dicevano ai più arrabbiati di non infierire. Non si trattava di seguire l’insegnamento biblico per cui il parlare sia Sì Sì, No No. Si trattava di dire non solo che “il governo è colpevolmente assente, assente interessato”, ma che sugli operai, in Italia, non si possono scaricare scelte decisive, finali. Perché gli operai, caro Bersani (che pure li conosci e dici cose di buon senso), stavolta non sapevano cosa votare. Ai cancelli, non si sapeva più cosa vuol dire SI e cosa vuol dire NO. Molti SI volevano dire NO, e molti NO volevano dire SI. E allora cosa importa chi ha vinto e chi ha perso? L’importante è che sia chiaro a tutti il dolore, l’orgoglio e la responsabilità degli operai – di quei SI e di quei NO.
La notte, durante lo spoglio, molte altre cose erano chiare. Chiarissima la sproporzione tra urna degli impiegati (scrutinata per prima, in tempo per i titoli dei giornali) e urne degli operai. Era chiarissimo anche dov’era la politica: era lì a spiegarci, alle due di notte, con comprensione e persuasione, “il nesso inestricabile tra strategie industriali, organizzazione del lavoro e autoritarismo”, aveva una polo gialla con su scritto il suo reparto, trent’anni di esperienza alla catena e sette ernie al disco. Chiarissime le parole su cui si arrovella il PD in questi giorni sui giornali. I compagni, gli amici. E soprattutto, i nemici. La notte, ai cancelli dell’Ingresso 2, era chiarissimo che il SI avrebbe tolto l’alibi all’azienda ma, comunque sarebbe andata, non sarebbe bastato. Lo dicevano tutti: “i problemi veri cominciano da adesso”. E i NO sarebbero stati lì a ricordarlo. Marchionne, un po’ goffamente, un po’ furbescamente, ha voluto prescindere da un elemento che a Pomigliano uomini e donne, vecchi e giovani, affermano forse più che altrove, decisivo per portare a casa un accordo così duro. L’elemento umano. E l’elemento umano significa, per dire, che l’azienda – metrica o non metrica – la mensa cara di Viciariello, celiaco, la deve pagare. Cazzo, se la deve pagare…
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