Tito Boeri, tra gli altri, qualche giorno fa, su Repubblica ha spiegato che l’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio è una misura sbagliata (oltre che di dubbia utilità), distruggendo così, in poche righe, uno dei tormentoni più gettonati di questa estate politica.
Nel frattempo, per un contrappasso feroce, sarà il governo che più di tutti ha negato la crisi, intervenendo blandamente tre anni fa e banalizzandola dichiaratamente fino al maggio del 2010, a dovere affrontare un pacchetto di misure mostruose, che fragile com’è, non si può nemmeno permettere.
Il centrosinistra è stato superato dalla verve incontenibile di Pierferdinando Casini, a cui si è troppo a lungo affidato, nei mesi scorsi, come qualcuno si era permesso di osservare. Ora Casini, sfruttando l’impasse può fare da solo, mollare le zavorre con cui si accompagnava (gli evanescenti Rutelli e Fini) e giocare su tutti i tavoli (anche quello di Alfano, in prospettiva), nonostante la figuraccia rimediata alle amministrative, anzi, proprio in ragione della sua inconsistenza elettorale (siamo nell’epoca dei paradossi, n’est-ce pas?).
A noi toccherebbe fare due o tre cose semplici, che sembrano non arrivare mai. Si dovrebbe precisare una proposta condivisa da tutto il centrosinistra, portarla fuori dal Palazzo, creare dibattito e partecipazione intorno a quel qualcosa che finora è mancato. Bersani lo annuncia, Vendola lo rovescia, Di Pietro lo esaspera. Così non si va da nessuna parte, lo capirebbe anche un bambino. A meno di non voler seguire chi vuole superare definitivamente l’esperienza del centrosinistra e la stagione della mobilitazione della scorsa primavera.
Noi non siamo d’accordo e facciamo da tempo qualche modesta proposta per cambiare questo Paese, che era già devastato prima della crisi economica. Per farlo, pensiamo ci voglia una riforma della politica (la sua corruzione e la sua inefficienza non hanno prezzo, per tutto il resto c’è la casta con i suoi privilegi) e una riforma fiscale. Prossima Italia oggi la racconta così, questa trasformazione. Che mobiliti l’economia e muova l’Italia. Che è ferma, immobile e sembra volersi conservare così. In una estensione della metafora del Palazzo (e della sua ‘muratura’), che assume i contorni economici di un Paese che si è cementato, in questi anni, cimentandosi pochissimo nelle sfide a cui poteva ambire una grande economia come la nostra.

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