Massimo Gramellini, oggi, sulla Stampa: «Un no ai partiti non alla politica».
Naturalmente i partiti possono infischiarsene e bollare la pratica Grillo come rivolta del popolo bue contro l’euro e le tasse. È una interpretazione di comodo che consentirà loro di rimanere immobili fino all’estinzione. Se invece decidessero di sopravvivere, dovrebbero riunirsi da domani in seduta plenaria per approvare entro l’estate una riforma seria della legge elettorale, del finanziamento pubblico e della democrazia interna, così da lasciar passare un po’ d’aria. Ma per dirla con Flaiano: poiché si trattava di una buona idea, nessuno la prese in considerazione.
Massimo Giannini, oggi, su Repubblica: «Un’altra politica».
Maggio francese, autunno italiano. Se l’esito delle presidenziali d’Oltralpe testimonia la speranza di un cambiamento nella governabilità, il risultato delle amministrative tricolori certifica l’evidenza di un’offerta politica sempre più frammentata e di una proposta di governo sempre meno scontata. Nove milioni di cittadini alle urne non equivalgono a una consultazione nazionale, ma sono un buon test per misurare il polso di un Paese che arriva a questa tornata elettorale in debito di forze e di risorse.
I “numeri” degli oltre mille comuni in cui si è votato riflettono con coerenza lo stato d’animo degli italiani. Sale alta l’onda dell’anti-politica, che spesso è domanda di un’altra politica. C’è una sfiducia profonda verso i partiti tradizionali, di cui il sintomo è il successo delle formazioni “anti-sistema”. C’è una disaffezione inquietante verso la stessa democrazia rappresentativa, di cui c’è traccia nell’aumento dell’astensionismo, per la prima volta più alto al Nord che al Sud.
Ecco, riflessioni che escono dai blog e finiscono finalmente in prima pagina.
Da qui si deve ripartire.
E dalla famosa domanda che da qualche giorno mi (ci?) ossessiona.
A meno di non voler (lasciar) perdere.
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