Rinnovare la classe dirigente, rispettando il limite dei tre mandati che il Pd si è auto-imposto (o quasi). Non è una questione personale, è una questione politica.

Candidare le donne, ed eleggerle (piccolo particolare), questa volta. Perché saranno loro a salvare l’Italia.

Abbandonare disegni deliranti sulla legge elettorale e aprire alla stagione della scelta dei parlamentari da parte dei cittadini, con le primarie per selezionarli.

Aprire un confronto serrato con le domande che provengono «dal basso», dai movimenti e dalle categorie, da quelli che si presentano con la loro lista alle elezioni e quelli che nemmeno vanno più a votare (ma poi magari tornano, e finisce che non votano per noi). Rispettando la volontà degli elettori (vedi alla voce referendum e proposte di legge d’iniziativa popolare).

Definire i confini e i criteri della compagine con cui il Pd ritiene di presentarsi agli elettori. Evitando di farlo a Vasto, se si può, ma senza pensare semplicemente di aggiungere altre «figurine» a quella foto. Anzi, faccio una proposta. Smettiamola di parlarne, in questi termini, che la foto di Vasto è una cosa soprattutto: il trionfo del politicismo che ci rende incomprensibili ai più. Che ormai sono quasi tutti.

Ripensare alle modalità con cui la nostra stessa organizzazione si struttura, perché i circoli del Pd devono aprirsi e ospitare quel dibattito (loro devono essere protagonisti, perché «in basso» ci stanno da una vita, e sembra di rileggere la storia di Micromega di Voltaire, a volte, tra dirigenti nazionali e semplici iscritti).

Sciogliere alcuni nodi politici di una qualche dimensione: il nodo principale è quello che ci vede (ancora!) al governo con Lombardo in Sicilia, all’origine della confusione totale in cui è immerso il voto di Palermo e dei veri e propri pasticci che in Sicilia in tutte le province.

Presentare le proposte senza annunciare in continuazione che lo faremo tra un momento: vogliamo la patrimoniale? Quale tipo? Vogliamo spiegarlo ai cittadini? E, contestualmente, vogliamo abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese? Vogliamo vendere alcuni dei gioielli di famiglia (a cominciare, per esempio, da quelli più ossidati, come Finmeccanica, al centro del più grande scandalo degli ultimi tempi) oppure no? E se li vendiamo, che cosa ne facciamo esattamente di quanto ne ricaviamo? Vogliamo tracciare i pagamenti, e centralizzare elettronicamente le fatture, restituendo ai contribuenti onesti il maltolto dell’evasione fiscale, oppure andiamo avanti con i strumenti mediatico-artigianali a cui ci siamo abituati?

Invece di parlare genericamente di crescita, illustrare con pazienza e passione (che non sono in contraddizione) quale crescita. E quali cose si possono fare, per tornare a crescere dove serve, come cerca di fare, al governo, il ministro Barca.

Puntare su ambiente, cultura e innovazione tecnologica, temi letteralmente scomparsi dall’agenda (su cui il governo Monti ha riflessi molto più lenti del previsto e del necessario), che invece qualificano la proposta politica dei partiti progressisti di mezzo mondo, da Washington al Baden-Württemberg.

Se poi Monti non può permettersele, tutte queste cose, perché gli «altri» non le vogliono (bella scoperta), non è un buon motivo per non dirle con chiarezza: anche perché lo sapevamo fin dall’inizio che questa maggioranza non poteva permettersi che un solo colpo veramente rivoluzionario. E che poi sarebbe ricominciato il tira-e-soprattutto-molla del Parlamento eletto nel 2008. E qualcuno lo aveva detto e al solito si era preso del pirla.

Lo so, mi ripeto, ma che ci volete fare. E tra qualche giorno esce anche un piccolo libretto, che tutte queste cose le dice in modo chiaro e inequivocabile. Se vorrete, potremo discuterlo per tutta l’estate. E trovare una formula nuova e più moderna di quella a cui siamo abituati. E di cui discutiamo, negli stessi termini, da un secolo.

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