L’intervento del vostro affezionatissimo al convegno Democrazia? Democrazia. Bologna, 19 maggio 2012.
Due premesse.
Era davvero necessario attendere il risultato greco per nutrire qualche sospetto nei confronti della bozza predisposta da Violante e discussa al tavolo dell’Abc?
E, se posso, davvero nel Pd nessuno ha fatto la riflessione sui «valori assoluti» (che l’espressione è anche uno slogan efficace) del dato elettorale, e non solo sulle percentuali? Così, per capire se ci stiamo rendendo conto di quello che accade. O se riduciamo tutto alle nostre convenienze, che diventan certezze nel breve volgere di un pomeriggio.
Ecco, allora, sulla base di queste due premesse, procediamo.
Sì al Bipolarismo, no al bicameralismo.
Sì alla scelta da parte dei cittadini, non dei capi. Perché sono anni che i capi, in più di un senso, scelgono i cittadini. E non è una metafora o una forzatura, è quello che è successo.
Sì alle primarie, che creano le condizioni per il pluralismo e per un’unità più matura. Fatte come si deve, però: ed è una questione questa soprattutto politica, che nessuna «aggiustatina» regolamentare potrà risolvere.
Sì a metà parlamentari, a metà prezzo, come ripetiamo da un secolo. Per ora siamo, in entrambi i casi, al -10%. Forse.
Sì all’alternanza, ma non quella all’interno dello stesso schieramento, ma tra forze politiche che si confrontano apertamente.
Sì al ricambio. Perché le regole sono regole, non deroghe.
Sì al rischio e insieme all’assunzione di responsabilità.
Voi pensate sia demagogia, questa? Qualcuno lo pensa, e secondo me sbaglia. Anzi, fa apposta a pensarlo.
Per me la demagogia sta da un’altra parte. E vi proporrei di inaugurare la stagione della demagogia zero.
Sono stati anni di ampolle, magie, scorciatoie, parole tonanti e vuote: promesse senza premesse né conclusioni.
Prendete l’Imu. Protestano tutti. E però noi dobbiamo dirlo: la partita economica ora deve essere pari per lo Stato.
I sindaci si definiscono esattori tout court. Per me, in questo, ad esempio, c’è parecchia demagogia. Perché i sindaci non sono un corpo estraneo. Ed è giusto che collaborino al recupero delle risorse per mettere in salvo il Paese. Altrimenti, siamo all’irresponsabilità più totale.
Non a caso Alfano, figlio di cotanto padre, propone di abolire l’Imu.
Un altro esempio è il continuo richiamo al patto di stabilità da far saltare. E lo dice il sindaco della più grande città amministrata dal Pd (una delle poche grandi città in cui il sindaco sia espressione diretta del Pd, per altro).
Ci si preoccupi piuttosto di aggregare i Comuni e di fonderli. E di lanciare una grande campagna nazionale in tal senso. Di fare delle province degli enti di secondo livello. Non metà, che anche qui siamo al -10% delle riforme solo accennate.
Di rendere trasparenti le regioni e tracciabili i loro comportamenti, di asciugare il mare di società pubbliche, soprattutto a livello regionale e locale. E di ragionare, non di manifestare.
Magari chiedendo con forza alle Regioni che fanno poco in questo senso, come la mia, di sostenere le attività dei Comuni con fondi più cospicui, proprio in relazione al patto tanto odiato. Senza cambiare il ‘totale’ alla fine, però.
Perché poi il passo è breve, davvero, verso quello che conosciamo da tempo.
E di tenere duro, quest’anno, come ha consigliato il ministro Barca, che non è certo insensibile alle questioni del ‘territorio’ e delle nostre comunità, come stanno facendo tutti, perché poi è chiaro che si dovrà progressivamente attribuire l’Imu ai Comuni. E che sarà la loro risorsa. Ma senza strappi e senza far fallire il Paese.
Modernizziamo, piuttosto.
Mettiamo l’Imu non più sui vani, sul catasto, ma sul valore commerciale delle abitazioni. Sicuri di un dato indiscutibile: la tassa sulla casa la mettono in tutto il mondo per finanziare i Comuni.
Lo stesso vale per alcuni toni, che sento risuonare in ogni discorso, anche dalla nostra parte. E mi chiedo: è possibile stare al governo come Nanni Moretti a quella festa? Oppure è necessario starci con una prospettiva?
E allora facciamo le cose serie, che ci chiede l’Europa e il cielo stellato sopra di noi che la rappresenta, ma che la nostra coscienza dovrebbe imporci ancor prima che arrivino i diktat da chissà dove.
Riusciamo a pronunciare tutta la parola patrimoniale. C’è chi si ferma a «pa», al balbettio.
Patrimoniale ovvero Imu progressiva e tassazione non solo sui capital gain (di standard tedesco, però, perché siamo ancora ad aliquote basse, anche in questo caso), ma anche sullo stock della ricchezza. Perché siamo nell’emergenza più totale.
Non certo per sperperare, che qui ci vuole la spanding review con tutto quello che sprechiamo, ma per abbassare le tasse.
Abbassare le tasse a chi lavora e produce, così compiamo il sogno berlusconiano, per dedicarci, poi, appena attenuata l’emergenza, a un progetto all’anno per cambiare il Paese.
Facciamoci sentire in Europa, perché l’Europa si faccia sentire in Svizzera, che là si trovano i lingotti dell’evasione fiscale, a due passi da casa.
Anche in questi giorni l’Europa è ancora vissuta con sospetto, e alla rovescia. Certo, se vinciamo a Lissone, scherziamo in Brianza, la Merkel come minimo si deve dimettere.
Ma c’è ancora troppo provincialismo, troppa demagogia anche in questo caso. Facciamo gli Hollande italiani, che come disse quella volta Benigni, al Woody Allen italiano, preferisco la definizione di Anna Magnani svizzera.
Facciamo, piuttosto, il nostro gioco. E oltre a chiedere un cambio di passo alle politiche europee, che è il momento giusto, portiamo l’Europa in Italia, per prima cosa, perché abbiamo fatto la flessibilità e ci siamo dimenticati il resto. Ci vuole un contratto unico, o per lo meno universale. E lo stesso vale per i sussidi. Riusciamo anche in questo caso a dirlo così? Contratto unico e sussidio universale? Come fanno in Europa?
Così, abbandonate le sirene della demagogia e le loro scorciatoie, dalle dodici stelle europee passeremmo ad affrontare anche le cinque, muovendoci, con grande cautela, tra Scilla (la partitocrazia) e Cariddi (il populismo).
C’è un albero in questa storia. Se ne parla fin da Omero. Era il 1996. Non era un Ulivo, come ci si potrebbe aspettare in questa sede, ma un fico che gli rassomigliava.
Odissea, XII, un passaggio a cui sono molto affezionato.
Il fico viene presentato così.
Grande verdeggia in questo, e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Poi c’è la tempesta, e il fico ritorna. Come nei film, se una pistola compare nel corso del primo tempo, potete stare certi che nel secondo sparerà.
E il fico risuona sempre due volte, potremmo dire. E sempre due volte ci dobbiamo porre il problema, pensate ai governi caduti (a dieci anni di distanza, l’uno dall’altro), o alle questioni irrisolte (referendum elettorale nel 2011 e discussione analoga nel 2012). «Vivere non è difficile, potendo poi rinascere», dice un altro poeta.
Tra la grotta di Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatal vorago,
Che in quel punto inghiottia le salse spume
Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio
M’aggrappai fico eccelso, e mi v’attenni,
Qual vipistrello: chè nè dove i piedi
Fermar, nè come ascendere, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla mano i lunghi, immensi
Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi.
Là dunque io m’attenea, bramando sempre,
Che rigettati dall’orrendo abisso
Fosser gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un lungo desio vennero a galla.
Nella stagion, che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal foro, e per cenar s’avvia,
Dell’onde usciro i sospirati avanzi.
Ecco, ci ritroviamo appesi al fico, che è selvatico, di movimento, insomma. Ma è anche frondoso, perché ci vuole un grande progetto. E le foglie sono ampie e ospitali. Ed è collocato in alto, il fico, e ci consente una visuale aperta, e uno sguardo sul futuro.
Però, poi, muoviamoci, perché è venuto il momento di buttarsi, di radunare le forze e riunire tutte le energie, senza fermarsi alle premesse (che per altro non ci sono) e senza titubare oltre. Un legno lo troveremo anche noi, per tornare a navigare:
Le braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo,
Non lunge da que’ legni; a cui m’assisi
Di sopra, e delle man remi io mi feci.
Ecco tuffiamoci. Facendo politica, non buttandola via.
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