Dave Eggers, a proposito di Obama, quattro anni fa. Da leggersi e rileggersi, prima di ‘buttarsi’ nelle primarie italiane ormai alle porte.
A dicembre e gennaio, durante la pausa invernale, gli studenti universitari fanno ritorno a casa, nella Bay Area, e molti dei miei ex studenti del liceo vengono a trovarmi per fare due chiacchiere. Ci sediamo e parliamo del tempo, delle singolari abitudini dei loro compagni di stanza e – inevitabilmente – di politica e delle primarie. La maggioranza di questi studenti sostengono Barack Obama, e benché a spingerli siano motivi diversi – «Sembra uno di noi», mi ha detto una studentessa. «In che senso?», ho chiesto. «Sembra un ragazzo di ventidue anni», ha risposto lei – la maggior parte di loro è attratta dal messaggio di cambiamento e trasparenza di Obama. Dopo essere stato considerato responsabile della vittoria di Obama in Iowa, il movimento dei giovani si sentiva invincibile. Il New Hampshire ha poi rettificato la situazione.
Dopo quelle primarie ho parlato con Brian, che adesso ha lasciato il college e vive a Los Angeles. Segue Obama da quando il «The Daily Show» mandò in onda una serie sulla sua campagna del 2004 per il Senato. Continua a essere certo delle probabilità di vittoria di Obama, ma dopo il New Hampshire teme che il suo candidato possa soccombere alle pressioni per un approccio negativo. Da mesi i mezzi di comunicazione intonano lo stesso ritornello. Per vincere occorre essere più agguerriti, occorre colpire più duro. Per molti giovani però l’elezione del prossimo presidente non dovrebbe richiedere una campagna che si presta ad analogie violente – «dare colpi», «estrarre sangue», «consiglio di guerra». Ed è esattamente questo che Luisa teme, ovvero che per assicurarsi qualche punto di vantaggio su Hillary Clinton, Obama debba diventare cattivo. «Per me sarebbe la fine» dice. «A quel punto sarebbe come tutti gli altri». Brian approfondisce lo stesso tema: «Hillary dice sempre di essere in grado di assorbire i colpi, racconta di essere in lotta da decenni, ed è questo il problema del suo messaggio. Parla di sé, delle sue ferite, delle sue cicatrici. Obama parla di noi, proprio di noi». Ho chiesto a Luisa perché lo stile di una campagna elettorale sia per lei così importante. Lei ha paragonato due candidati che durante un dibattito litigano, o che si scambiano insignificanti ma orecchiabili provocazioni a mezzo stampa, ai suoi genitori che litigano. È qualcosa che sminuisce entrambi, e che lei considera scoraggiante, in senso generale. Gli adulti non dovevano forse essere migliori di noi?
«È per questo che di fronte al voto siamo apatici», dichiara. «E questa atmosfera avvelenata, capisci? Ci ricorda dei nostri genitori nei loro momenti peggiori.» Dopo aver trascorso quattro anni (più o meno) a studiare società imperfette e fallite, e a immaginarne di migliori e più giuste, gli studenti universitari credono che dopo la laurea entreranno in un mondo radicalmente nuovo. E poiché i campus sono nel migliore dei casi isolati dal mondo esterno, e nel peggiore assolutamente estranei alla realtà, quando questi studenti tornano nel mondo restano colpiti da quanto poco questo sia cambiato.
Queste elezioni, però, offrono una chiara opportunità per raggiungere ciò che ogni generazione prima della loro ha tanto desiderato: che il mondo possa rinascere insieme a loro. Riferendosi al messaggio di Obama, Hillary Clinton – che i miei studenti rispettano moltissimo – ha pronunciato le parole «false speranze». Come può la speranza essere falsa?, potrebbe domandarsi un giovane idealista. La speranza per questi giovani è l’unico cavallo in gara. E non era forse l’altro Clinton che amava citare The Cure at Troy, la versione del Filottete di Sofocle di Seamus Heaney, che di questi tempi appare grottescamente pertinente? La storia dice di non sperare da questo lato della tomba. Ma poi, una volta nella vita, la marea tanto attesa della giustizia può sollevarsi e speranza e storia combaciano.
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