«La mia biblioteca era per me un ducato grande abbastanza», si legge nella Tempesta di Shakespeare.
I sistemi bibliotecari della nostra Regione sono luoghi di straordinaria valenza culturale, sociale e politica, nel suo senso più profondo.
Nel comprendere come possono essere progettati i nuovi spazi dedicati alla cultura è opportuno partire da come la cultura risponde alle esigenze di questa fase storica. Una fase che vede la crisi dei paradigmi economici tradizionali, la necessità di aggiornare le infrastrutture del sapere e dell’informazione (biblioteche, ludoteche, teatri e musei), sia in termini tecnologici, sia nel loro ‘appeal’ nei confronti di quella maggioranza della popolazione con ne le utilizza.
I servizi culturali di un territorio ‘ricco’ come quello lombardo sono utilizzati dal 20% circa della popolazione. Un dato elevato, se paragonato al 10% medio nazionale ma decisamente sottodimensionato rispetto alle realtà europee. Basti pensare che negli Idea Store londinesi (un luogo di incontro, informazione e socialità prima ancora che una biblioteca) passa il 55% della popolazione residente.
Dove ci deve portare un servizio culturale del 2012? Deve accrescere il senso di appartenenza ad una comunità di tutti coloro che la popolano, indipendentemente da dove sono nati (cosa ben diversa dall’esaltazione dell’identità che abbiamo conosciuto in questi tristi anni, tra capodanni celtici e padaneggiamenti vari). Deve accrescere l’autonomia ed il senso critico dopo anni in cui i messaggi unidirezionali dei media tradizionali hanno intorpidito i nostri sensi. Deve fornire conoscenze e capacità al contesto in cui è inserito e deve, non ultimo, aggiornare le competenze e le abilità dei cittadini anche in una logica economica.
Una comunità dove è possibile tutti, in uno spazio pubblico, seguire corsi di aggiornamento, apprendere mestieri creativi, conoscere ed ascoltare chi ha altre competenze professionali, è un luogo più ricco. Ce lo dimostra l’esperienza della Ruhr, dove oltre 300 musei e teatri hanno risollevato un’economia post-industriale.
In un momento in cui le risorse, soprattutto quelle pubbliche, sono poche ha quindi senso pensare ad un piano per aggiornare e sviluppare i servizi culturali delle nostre città, intendendoli come un tassello fondamentale del welfare di un territorio e non come templi polverosi della cultura, dove entrare in silenzio e mantenere rigidamente separati i diversi utenti.
Un polo culturale moderno organizza la propria offerta e le proprie energie per orientarsi più all’utenza potenziale che su quella reale. In quest’ottica, nell’uso delle risorse pubbliche, l’investimento sulle infrastrutture culturali deve essere prioritario rispetto agli eventi.
Un polo culturale di comunità puó essere il luogo in cui sviluppare le politiche giovanili, interagendo con università e scuole superiori ed utilizzando questi spazi come presidi democratici e di partecipazione nelle nostre periferie. Ha fatto questo il Governo laburista inglese alla fine degli anni ’90 ed i risultati, nelle zone delle grandi città raggiunte da questi progetti, si sono visti.
La Regione può lanciare un piano per investire sulle reti di biblioteche, musei e teatri, promuovendo la collaborazione tra poli culturali (sul modello del sistema bibliotecario del nord-ovest milanese) e ponendosi come obiettivo un salto di qualità di ciò che già esiste nei Comuni. I campi di intervento possono essere:
Innovazione tecnologica dei servizi culturali (prenotazioni on line, automazione dei servizi di prestito nelle biblioteche o di acquisto dei biglietti di musei/teatri anche nelle piccole realtà);
Programma per la promozione e la gestione dei servizi orientata agli utenti potenziali, con l’obiettivo di raggiungere quell’80% che oggi non li utilizza. Un polo culturale moderno unisce competenze ed esperienze diverse: ad esempio ludoteche, artoteche (prestito delle opere d’arte, perché no?), laboratori per la corsistica e sale studio;
Partecipazione diretta dell’utente, che da consumatore diventa consum-attore (ovvero consum-autore) in attività di corsistica e volontariato, scambio di esperienze e competenze tra i diversi utenti;
Costruzione di alleanze fra amministratori e aziende (da sponsor a partner) e fra amministratori e cittadini e cittadinanza attiva come risorsa di saperi e competenze.
In poche parole vorremmo che nella prossima Lombardia la cultura uscisse dalla settorialità in cui è stata incredibilmente confinata, per offrire luoghi di incontro, di aggregazione, di produzione di pensiero collettivo. In questo modo possono essere aumentate le capacità individuali e di comunità, si crea innovazione, si suscitano nuovi interessi e si genera felicità e benessere. Quando, negli anni ’60, gli urbanisti emiliani mettevano parchi, scuole e biblioteche al centro dei quartieri o pianificavano le zone produttive nei luoghi più idonee superando la logica del una casa/ un capannone, pensavano proprio a questo.
Prima che il Pil diventasse l’unico parametro sul quale misurare il successo individuale e collettivo, prima che la sola logica dei costruttori e del mercato degli immobili generasse città senza spazi comuni e senza tempo collettivo.
L’Idea Store alla londinese (con un italiano a dirigerlo, Sergio Dogliani) e il Multiplo di Cavriago, Reggio Emilia, sono due luoghi da cui partire. Come lo sono le linee programmatiche lungo le quali si sta sviluppando il lavoro dell’amministrazione milanese: perché, come ha scritto recentemente Stefano Boeri, la politica deve promuovere officine creative dove la cultura diffusa possa trovare punti di riferimento, spazi e luoghi non solo fisici dove crescere. All’interno delle nostre città, che spesso nascondono tesori di grande pregio, puntualmente trascurati dalla politica, negli ultimi anni, in favore di scelte discutibilissime e miopi e all’insegna di un’idea di «cultura chiusa» che è il più grave degli ossimori.
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