Come sarà l’Italia tra cinque anni? E come vorremmo che fosse?
Perché la campagna elettorale del 2013 è in realtà la campagna del 2018, anche se si vive sulla dichiarazione del giorno prima.
Tra cinque anni vorremo un Paese dei promettenti o dei conoscenti? Di sudditi-a-caste o di cittadini? Di soli uomini o di donne protagoniste (che poi lo sono già solo che non è loro riconosciuto)? Di alta formazione o di sottocultura? Di una politica pervasiva (e invasiva) o capace di stare al proprio posto, che è “al servizio”? Di processi che durano più di una legislatura o di una giustizia che risponde in tempi certi e utili?
Voteremo per chi ci assicura di governare in una relazione quotidiana con gli elettori? Voteremo ancora per mille parlamentari scelti da qualcuno o cinquecento scelti da noi? Ci saranno ancora più di ottomila Comuni in regime di separazione o bacini amministrativi più efficienti e razionali? Ci sarà ancora la spending review o la spesa sarà stata rivista?
Ecco, mi farei queste domande alla rovescia, rispetto all’ordine cronologico. Parlerei di un’Italia al futuro e non di un’Italia al passato prossimo. E concederei il “tempo necessario” alle proposte serie. E al modo per realizzarle.
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