Tra i milioni di cose da fare da martedì in poi, c’è il grandioso tema della riforma della politica. Una riforma che riguarda prima di tutto proprio le formazioni politiche e che deve avere tratti rivoluzionari per rispondere ad una crisi che si manifesterà dentro le urne, dopo essersi manifestata nelle piazze e dentro le istituzioni.

Leggo Marco Revelli e il suo ultimo libro, Finale di partito (Einaudi), come avevo letto Piero Ignazi, tempo fa. E penso che dobbiamo finalmente rispondere a quelle domande che anche noi ci poniamo da tempo, prima che fossero di moda. Confidando ancora in organizzazioni complesse come i partiti, ma pensando che la forma che abbiamo ereditato dal secolo scorso vada ri-formata, appunto, con intelligenza e senso delle proporzioni, come mi auguravo nel mio ultimo, piccolo libro.

Le domande riguardano, innanzitutto, i costi e i tempi e i numeri della politica, un tema che si è imposto nel dibattito per due motivi convergenti: la disuguaglianza sempre maggiore tra chi sta bene e chi non ce la fa (vedi alla voce sperequazione) e la crisi economica e sociale più profonda da due generazioni a questa parte.

Ormai anni fa, abbiamo iniziato a parlare di «metà parlamentari a metà prezzo», di riduzione dei rimborsi elettorali e di ripensamento della loro logica, di ristrutturazione della partita complessiva dei finanziamenti alla politica.

Le risposte su questi temi sono più facili delle grandi risposte da dare alle trasformazioni globali: e anche per questo devono arrivare subito, non sulla base di approcci devastanti, ma sulla base di un percorso razionale e coerente.

E dobbiamo essere chiari: ci vuole un nuovo disegno e si impongono scelte immediate. Faccio un esempio banale che però riguarda un punto che sembra avere assunto un’importanza decisiva e non rinviabile: se si vogliono ridurre gli emolumenti dei parlamentari (e da tempo penso che lo si debba fare), sulla base dell’esperienza degli ultimi anni possiamo dire che è il Pd a dover scegliere se continuare a chiedere ai propri rappresentanti una quota significativa del loro emolumento (che si configura come finanziamento al partito, aggiungendosi ai rimborsi elettorali) o se rinunciarvi. Perché il fatto che il 30% della retribuzione mensile degli eletti vada al partito in cui militano, mi dispiace, ma ci viene imputata (per certi versi in modo paradossale) come un eccesso personale. E invece la scelta di ridurre subito di una stessa percentuale (o di una percentuale ancora maggiore) gli emolumenti sarebbe vissuta come una rivoluzione straordinaria. A cui aggiungere una riflessione sui costi e sulle modalità dell’organizzazione stessa delle nostre istituzioni, come Ambrosoli si è impegnato a fare per la Regione Lombardia.

Ciò ha delle conseguenze, ovviamente. Come avrà parecchie conseguenze anche il ripensamento delle voci di spesa dei soggetti politici, attualmente molto centralizzate (per usare un eufemismo). Anche in questo caso la politica devi porsi il problema della «cessione della sovranità», anche in senso verticale, e ripensare se stessa e il proprio funzionamento.

Alla ricerca di una misura da trovare tra pubblico e privato anche per quanto riguarda il finanziamento della politica. Lo so, qualcuno ora dirà che è tardi e che si poteva fare prima e, per certi versi, ha ragione.

L’importante è che si faccia nell’ambito della «legge che manca da sempre», quella sui partiti e sulla loro democrazia interna, che il Pd ha pronta e che deve essere votata nel breve volgere di pochi mesi, per dare un quadro alla trasformazione che si impone.

Non sono promesse: sono le premesse necessarie per iniziare a cambiare le cose. Perché il cambiamento ha bisogno, da una parte, di un progetto di governo complesso e rigoroso e, dall’altra, della fiducia dei cittadini.

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