Ieri sera sono rimasto in aula, con il M5S che occupava, perché credo che sia venuto il momento (per la verità, il momento è arrivato già un secolo fa) di “rompere lo schema” e di provare a forzare una situazione che dallo stallo passerà presto al panico.

Non mi interessava tanto la questione della costituzione delle commissioni, per altro molto rilevante, come ho cercato di spiegare più volte, in questa sede e nel dibattito con i colleghi: mi incuriosiva la possibilità di superare gli steccati e di parlarsi francamente, nel luogo deputato, appunto, al Parlamento (che si chiama, appunto, così, perché è sede del confronto e del dibattito, non certo della polemica e della contrapposizione).

E, informalmente, tra i banchi degli uni e degli altri, il confronto è iniziato, con parole meno astiose e impostate, nel tentativo di provare a portare la “rottura dello schema” non solo al confronto delle forze politiche, ma al governo del Paese.

Per fare le cose, bisogna iniziare a farle. E ciò vale per il lavoro del Parlamento, ma vale soprattutto per la politica. Perché sotto lo streaming finora c’è stato poco, pochissimo. Più una tensione nervosa (e la conseguente tenzone delle varie tifoserie), che una tensione politica. Perché oltre a parlare – come se fosse una formula omerica – di «governo del cambiamento», bisognerebbe avviare una pratica politica del cambiamento: che finora si è vista pochissimo. Una novità che per essere tale miri alla sostanza delle questioni, non alle vuote formule del politicismo che sta travolgendo tutti quanti e, tra i primi, proprio gli esponenti del M5S.

L’occasione è grande e grandissimo il rischio di lasciarcela sfuggire. Per fare qualcosa di tradizionale, perché questo Paese delle rivoluzioni preferisce parlare. Per farle, c’è sempre tempo. Facciamo mai?

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