Mi permetto, mi perdonerai, scusami se passo direttamente al tu.

Così iniziano quasi tutte le lettere che mi arrivano in queste ore, in risposta alla mitica ricognizione (che sta dando risultati sorprendenti, ma voi non ditelo a nessuno, così continuano a sottovalutare “quelli come noi” e il problema che tentiamo di segnalare).

Mi permetto di darti del tu perché ho la tua stessa età (più o meno) oppure perché sono molto più vecchio di te, e potresti essere mio figlio. Se lo faccio, è perché ne ho bisogno, di dare del tu a chi mi dovrebbe rappresentare. Perché penso di poter condividere con te il disagio che sento, e la speranza che da qualche parte ancora conservo. E perché spero che tu risponda, a me, con un messaggio o con gli impegni che ti prendi o, ancora, con le cose che farai.

Se posso, è una cosa che viene prima della rappresentanza: è la questione del riconoscimento, della domanda da fare per vedere se si risponde (a proposito, sono in ritardo, sto rispondendo a un centinaio di email al giorno, faccio quello che posso), della proposta che si richiede che oggi come non mai deve presentarsi sotto forma di risposta.

In tutto questo bailamme su Twitter e i social, di cui si parla come se fossero diabolici, di cui si discetta preoccupati soprattutto per gli insulti che volano, a me sembra che la questione sia così antica e così profonda da avere ben poco a che fare con la rete e con chissà che. No, l’esigenza è quella di sempre e, se posso, è quella della democrazia e della partecipazione.

E, non dimentichiamolo, c’entra soprattutto con l’umanità, che molti di noi vorrebbero rivedere alla guida della politica. Al centro di una conversazione. Come punto di partenza e anche di arrivo di un progetto. Che sia anche nostro, almeno un po’.

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