Non è cambiato nulla o quasi, dal punto di vista della forma partito, in questi ultimi vent’anni: non solo in molti casi sono rimaste le stesse persone, ma in tutti i casi sono rimasti gli stessi metodi, gli stessi strumenti e le stesse modalità. A parte il ricorso alle primarie, per il resto tutto è andato come sempre, con cambiamenti marginali o di facciata: come se fossimo più «appartati» che «apparati», capaci soprattutto di sottrarsi al cambiamento che attraversava la società e la forma delle organizzazioni di ogni genere e tipo.
Ed è proprio questo il punto, perché il partito dovrebbe essere strumento di cambiamento, mentre è apparso come elemento di conservazione, quantomeno di se stesso. Anzi, come ha detto Barca oggi, è parso «preoccupato di cambiare», alla luce di una difesa delle rendite di posizione e di una generalizzata involuzione delle proprie classi dirigenti.
Ecco perché Barca insiste sulla separazione tra Stato e partito, tra la logica inevitabilmente clientelare che ‘compromette’ il partito e che lo mette in una posizione intrinsecamente sbagliata. Forse questo è il punto politico del documento di Barca, quello più qualificante e quello, insieme, più problematico.
Per dirla con parole mie, ormai è chiaro anche ai sassi che per cambiare il Paese, si deve prima di tutto cambiare il Pd, ovvero quello strumento mancato di cambiamento, che si è fatto raggiungere da Berlusconi e sbaragliare, in una porzione non indifferente del proprio elettorato, dal M5S. Proprio su questo punto, ha agito quel combinato (ed esplosivo) disposto tra le questioni sociali e il sistema di potere, di cui il Pd è accusato di fare parte o nei confronti del quale il Pd è accusato di essere stato troppo critico e intraprendente.
Se si vuole essere elementi di mobilitazione e di cambiamento, non ci si può preoccupare degli amici degli amici, non ci si può attenere a una logica per la quale il partito diventa ascensore sociale per gli insider per diventarlo ancora di più ed entrare nelle istituzioni (spesso a prescindere dalle competenze e dal merito) e non ha più una funzione di mediatore tra Stato e società, perché ha perso di vista quest’ultima e si è esaurito nel primo. E perché non considera, se non con qualche fastidio, gli outsider.
Il Pd ha tre nodi da sciogliere, che ci parlano insieme della sua debolezza e delle opportunità che porta con sé, dice Barca: le notevoli risorse umane, che però non sono valorizzate (né formate); le numerosissime sedi locali, che però non sono messe in rete tra loro; il ricchissimo dibattito interno, che avviene troppo spesso tra posizioni di rendita (e di potere) e non sulle grandi opzioni di fondo e sulle famose ‘cose’ da fare.
È la questione dell’autonomia, del ruolo e della funzione di un partito, che precede ogni sua organizzazione e che attiene, più precisamente, alla sua collocazione e alla sua natura. Prima di essere leggero o pesante (o nessuna delle due, o entrambe, come sembra capitare all’attuale Pd) un partito deve chiarire prima di tutto a se stesso qual è la posizione che gli compete e che gli spetta. Solo così può ‘funzionare’.
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