Gli operai a Terni picchiati con i manganelli insieme al sindaco della città, il caso Cucchi che rimbalza sulle pagine dei giornali accompagnato da gesti volgari e insultanti e da una sentenza che fa discutere, l’Ilva di Taranto con le sue contraddizioni che il governo cerca di affrontare con lo stesso manager che la proprietà aveva indicato in qualità di commissario.
L’Italia è anche questo e soprattutto questo. Un Paese in cui il disagio continua a crescere, in attesa delle soluzioni che la politica sono anni che fatica a dare. E mentre Berlusconi attacca la Merkel (risparmiandosi i soliti epitoti) per fare un po’ di campagna elettorale (con la mano sinistra, perché a lui il governissimo va benissimo), e mentre tutto è accompagnato da un dibattito finto (anzi, fintissimo), le questioni diventano ogni ora più dolorose. Non che sia facile affrontarle, ma tutto dovrebbe essere misurato con quello che c’è fuori, con i disastri ereditati e rinnovati nel corso degli ultimi anni, con le difficoltà di chi non vuole arrivare alla fine della legislatura, ma alla fine del mese.
Lo scrivo soprattutto per me: ritrovare questa misura, accompagnarla con l’umiltà e con il rispetto per chi dovremmo rappresentare, riconoscere il conflitto come elemento essenziale (altro che pacificazione) della vicenda del nostro Paese (e del mondo in cui viviamo), può forse aiutarci a ritrovare la strada. E ad alzare il livello del dibattito (dibattito? Quale dibattito?).
A questo dobbiamo dedicare i prossimi mesi, in totale discontinuità con quanto è accaduto finora. Da sempre, potremmo dire, nell’Italia dolorosa in cui ci ritroviamo, e da cui dobbiamo trovare il modo di uscire. Presto e però con costanza, perché di bacchette magiche, di uomini della provvidenza, ne abbiamo avuti già. Con bandana e loden, a seconda delle stagioni. E con un senso del nuovo che, lo sappiamo, è molto più impegnativo del vecchio. Che infatti troneggia e si perpetua. Incontrastato.
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