Anche a me, il pezzo di Ilvo Diamanti, la sua ultima bussola.
E ci ho pensato parecchio, in queste ore, ma ho pensato che fosse il caso di condividerla con voi. Soprattutto gli ultimi capoversi:
È questo il rischio maggiore che vedo, nell’Italia dei nostri tempi. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale – e quasi unica – soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d’opinione che si traduce nel “non voto”. Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale, d’altronde, alimenta il disincanto se non l’indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l’abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze “non politiche”. Cioè, da larghe intese imposte – e, comunque, giustificate – dall’emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra. D’altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi. Il problema è che l’assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi “tautologici”: in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative – a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c’è stata alternanza. Stesse forze al governo – Dc e alleati – e all’opposizione – Pci e sinistra.
Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta “localizzate”, su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa). È una democrazia “eccezionale”, dove l’eccezione è la regola. Dove, per l’Opinione Pubblica, l’anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un’onda anomala del voto o del “non voto”. Mentre gli “anticorpi della democrazia”, come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel “senso comune”. Assai più diffuso e influente, in Italia, del “senso civico”.
Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.
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