Facciamo un Congresso aperto, e lo dico, perché ci credo, e perché è l’unico modo perché il Pd recuperi quella missione che ha ‘sospeso’ (eufemismo), nel quadro politico attuale.
Facciamo un Congresso aperto, che sia aperto su tutte le discussioni e quindi anche sul giudizio sul governo, sui suoi tempi, sulle cose da dire e sulla via d’uscita, se votare tra due anni o votare tra un anno, per capirci. E perché fare una cosa piuttosto che un’altra.
Facciamo un Congresso aperto, e facciamo attenzione che tutto non si riduca al costo di partecipazione, se un euro o dieci o quindici, perché rischiamo di fare una discussione meschina.
Facciamo un Congresso aperto, sapendo che abbiamo due questioni essenziali che lo precedono, la legge elettorale e le tasse sul lavoro (oppure l’Imu, che tanto ci ossessiona).
Facciamo un Congresso aperto, e lasciamo il finale aperto, al giudizio dei nostri elettori e dei nostri iscritti, che non è emotivo, è politico. Sul tipo di leader, sul segretario, sul premier o su tutte e due le cose. E il disagio non va banalizzato e non ne va fatta alcuna caricatura.
Facciamo un Congresso aperto, anche perché in questi mesi ci siamo dimenticati della relazione politica con gli elettori e con gli iscritti (con entrambi, siamo stati democratici).
E la domanda è: dopo, che cosa ci sarà? Ci sarà un’alleanza? Quale? Con chi? Ci sarà uno schema neocentrista (anzi semprecentrista) ovvero uno schema diverso?
Ecco perché si fa il Congresso. Se non si farà così, sarà un Congresso povero o sarebbe addirittura meglio non farlo.
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