Ho letto il libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi. Un libro sull’essere di sinistra tra purezza e impurità, che a me ha ricordato L’umiltà del male di Franco Cassano (Laterza), anche perché Cassano è mio compagno di banco alla Camera e le conversazioni con lui, tra un emendamento e Sloterdijk, sono tra le cose più interessanti di questa esperienza.
Nel libro, ci sono molte cose che mi piacciono, soprattutto quando Piccolo discute della diversità dei comunisti (e della sua), altre meno, soprattutto quando Piccolo discute dell’antiberlusconismo, suo e degli altri.
Mi pare che sia una lettura di secondo livello, diciamo così, che non considera un fatto fondamentale: che gli ultimi vent’anni, come i precedenti dieci, siano stati un periodo pessimo per l’Italia. In cui siamo diventati tutti più poveri, più ignoranti e, se si vuole, meno competitivi. E che non è questione di opinioni o di percezione, ma è un dato oggettivo e clamoroso.
Tutti non sono solo quelli di sinistra, e Piccolo ha ovviamente ragione. C’è da capire però dove siano finiti quei tutti, e dove sia finita la sinistra. Che è andata a cercarsi altrove, forse perché non poteva sopportare le proprie contraddizioni. Una sinistra che ha buttato via quasi tutto, della sua storia, senza saperne raccontare un’altra.
Il problema insomma non è stato nella tattica, ma nell’assenza di strategia. E quando Piccolo ripensa alla fontana della Reggia di Caserta, e a Diana e Atteone (mito carissimo a Giordano Bruno, peraltro), a me sembra che ci siamo dimenticati della nuda vita, parecchio offesa in questi anni, mentre tutti eravamo portati a commentare, soprattutto. Questione di sostanza, questione che riguarda la realtà, da leggersi senza travestimenti e senza veli, che non abbiamo saputo interpretare. Tutti, qui, vuol dire anche nessuno. Ed è la cosa più grave di tutte.
Per altro, quel peggioramento ha riguardato proprio tutti o quasi, a parte una piccola porzione di amici degli amici, di furbissimi e di introdotti. Anche di disonesti. Per tutti (appunto) gli altri, non è stato bello. Né giusto. E questo è il vero problema, al di là dei punti di vista. E in tutto questo la nostalgia per Berlinguer è naturale e pre-politica. È qualcosa di affettivo e però di razionalissimo. Soprattutto per come le cose, poi, sono andate. Che è l’unica cosa che conta davvero.
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