Abbiamo citato spesso in questi giorni quel passo di Machiavelli, che ci consente di affrontare la questione della rappresentanza con parole nuove anche se hanno cinquecento anni.
La rappresentazione migliore per spiegare questa impellente necessità di nuove relazioni tra gli eletti e gli elettori, alla ricerca di una nuova sovranità di questi e di nuove modalità per quelli, posso citare un episodio di qualche giorno fa.
Quando esci dalla Camera, incontri sempre, dopo pochi passi, un contestatore ad personam, incluso nel mandato. Ne abbiamo uno per ciascuno.
Un pomeriggio, rientravo, e a qualche metro dal portone, un signore mi riconosce e mi grida: «Non vi voto più, state a rifà la diccì!». Faccio per spiegare che non sono proprio tra quelli che si augurano questo tipo di finale, quando interviene il contestatore gentile, amico di quello più nervoso, che interviene in mia parziale difesa: «lascialo stare, quello è uno dei meno peggio».
Come sempre in quelle occasioni, ci si ferma a parlare, ci si chiarisce, e in pochi minuti si trova il modo di parlare pacatamente, di confrontarsi, alla pari. Certo, è solo un episodio, ma di episodi così ce ne sono a centinaia, in un mese. E dobbiamo saper affrontare i contestatori (buoni o cattivi, poco importa) e ritornare a parlare direttamente con le persone. Senza troppi codazzi, senza fare i fenomeni, che le persone non ne possono più di noi. Ci odiano, non credono nei partiti, non si fidano della politica e di quasi nessuno.
Per superare la crisi, non possiamo dare del populista a tutti quanti, per assolverci ancora prima di cominciare a discutere. Dobbiamo fare proprio il contrario. E dobbiamo iniziare a fare qualcosa, perché il tempo è finito già.
L'attimo non è fuggente, come in quel film che mi è spesso venuto in mente, perché dobbiamo essere capaci di superare il conformismo, ribaltare le situazioni, metterci nei panni di chi ancora ci vota o di chi non lo fa più. L'attimo è fuggito già. Proviamo a prenderlo, se siamo capaci.
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