Il decreto non va bene, non si capisce perché sia così palesemente in contrasto con gli impegni dichiarati e così contraddittorio rispetto allo stesso schema annunciato per il successivo disegno di legge delega.
Non produrrà grandi risultati, se non quello – negativissimo – di far diminuire i contratti a tempo indeterminato. E non porterà certo alla creazione di lavoro, trattandosi di misure di alcuna utilità in questo senso.
Una norma che aumenta qualità e durata della precarietà, senza alcuna ragione. Parla di semplificazione, tutta da dimostrare. Toglie all’apprendistato il carattere (e il concetto stesso) di apprendistato, trasformandolo in una soluzione che non fa nient’altro che sostituire (cannibalizzare) tutte le altre. Un apprendistato fuori dalla linea tracciata dalla Ue, che rischia di mettere a rischio il programma della Youth Guarantee e che pone il governatore della Banca d’Italia pericolosamente a sinistra del Pd.
Andrea Ranieri ne ha già scritto (in proposito è intervenuto anche in direzione nazionale, ponendo le stesse questioni) e vi torna con un parere che abbiamo condiviso e che riporto qui di sotto. Come vedrete, non si tratta solo dell’espressione delle nostre perplessità, ma del tentativo di ridurre il danno:
Al Convegno biennale del Centro Studi di Confindustria a Bari sabato scorso il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha detto cose di esemplare chiarezza sulla situazione economica del nostro Paese. Vista, finalmente, dal lato della produzione e della organizzazione del lavoro. E ha colto i limiti strutturali di gran parte del nostro sistema produttivo, quelli che quando l’economia cresce ci fanno crescere più lentamente, e quando c’è la crisi ci fanno andare più in crisi degli altri.
Il problema è la scarsa produttività e il basso tasso di innovazione. Ma la produttività e il tasso di innovazione del sistema sono ostacolate, spiega Visco, dalla precarietà dei rapporti di lavoro, e collegato a questa, dallo scarso investimento delle imprese e della politica nella formazione e nella cura della risorsa fondamentale, le conoscenze le competenze dei lavoratori.
Tutte le più recenti ricerche, in Italia e nel mondo, confermano questa analisi e evidenziano che la produttività è cresciuta di più dove il lavoro è più stabile, di meno dove si è risposto alle difficoltà economiche con puri e semplici interventi di deregolazione del mercato del lavoro. E da Robert Reich in poi è quasi un luogo comune che «la ricchezza delle nazioni», nell’economia globale della conoscenza, è data dal sapere e dal saper fare delle persone che nelle nazioni vivono e lavorano.
L’Italia è forse il Paese che queste cose le ha dette di più e fatte di meno. La centralità della istruzione e della formazione è stata da un po’ di anni la cosa più predicata e meno praticata. Il risultato è quello che mette drammaticamente in luce la ricerca Ocse sulle competenze degli adulti in 24 Paesi. Ultimi o al massimo penultimi in tutte le classifiche, con il 70% degli italiani che sono sotto, per capacità di leggere, scrivere, far di conto, al livello 3 che per l’Ocse è il livello minimo per vivere e lavorare decentemente. Ed è un problema degli anziani ma anche dei giovani, che dalla ricerca risultano essere quelli che escono dalla scuola e dalla Università con meno capacità di mettere in pratica quello che sanno – questo sono in estrema sintesi le competenze – ed essendo poi o disoccupati, o impiegati in lavori saltuari, di basso livello qualitativo, e con formazione scarsa o nulla, dopo un po’ di tempo sono meno competenti di quando sono usciti dai percorsi di istruzione. Con grave nocumento per la loro occupabilità, ma anche per la produttività e la capacità di innovazione del nostro sistema di produzione di merci e servizi.
Il programma europeo “Garanzia Giovani” sembra fatto apposta per cominciare ad affrontare questo problema. Tutti i giovani dai 16 ai 29 anni usciti con diploma o laurea oppure “dispersi” dalla nostra scuola devono avere un’occasione per esse inseriti nel mondo del lavoro e aumentare il loro livello di competenza, con particolare attenzione ai dispersi a cui va offerta una possibilità di recuperare quel sapere e quelle competenze che la scuola ha loro negato. Il programma si misurerà sulla capacità di far crescere non solo l’occupazione – che in ultima analisi non dipende mai da politiche puramente lavoristiche – ma la loro “occupabilità”, che è il possesso delle competenze necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e ad aspirare ad una collocazione dignitosa.
Del resto è questa da sempre la linea dell’Europa, per cui le politiche attive del lavoro sono sempre politiche per le persone, e non semplici incentivi alle imprese. E paghiamo ancora adesso in euro sonanti le sanzioni che l’Unione ci ha inflitto per aver dimenticato questo dettaglio, quando incentivammo le imprese a fare contratti di formazione-lavoro senza formazione.
Se questo è il quadro, se questa è la direzione di marcia possibile per riconnettere la questione lavoro alle azioni necessarie per elevare la qualità e la dignità del lavoro, e la produttività e l’innovazione del nostro sistema produttivo, il decreto Poletti va decisamente in un’altra direzione. Incentiva ulteriormente i contratti a temo determinato che sono oggi il 70% di tutti gli avviamenti al lavoro, con tassi irrisori di trasformazione a tempo indeterminato, e riduce a mero adempimento burocratico da rimuovere il patto formativo individuale nell’apprendistato professionalizzante, e abolisce di fatto la formazione volta a rafforzare le loro competenze di base e trasversali, che sono quelle che uno deve possedere qualunque lavoro faccia, a partire ad esempio dai diritti e della sicurezza. In controtendenza tra l’altro a quanto afferma, ancora con molte ambiguità da chiarire, il disegno di legge sul lavoro, che contiene tra l’altro il contratto unico di inserimento. E con molti problemi rispetto alla stessa “Garanzia Giovani”, che difficilmente potrà accogliere come una delle modalità di inserimento un apprendistato senza formazione.
La cosa più ragionevole sarebbe dunque ritirare il decreto, e affrontare le questioni all’interno della discussione sul disegno di legge. In cui ad esempio sarà possibile affrontare la questione dei servizi per l’impiego e della loro capacità di sostenere le piccole e piccolissime imprese nella costruzione dei percorsi formativi, e la qualità e l’efficacia del nostro sistema di formazione professionale- senza dimenticare mai che rispetto a quasi tutti gli altri paesi d’Europa di formazione professionale in ingresso e continua ne facciamo davvero veramente poca. E di vedere magari quale tempo determinato potrà sopravvivere al contratto di inserimento a tutele crescenti.
Ma il decreto, ha tuonato da Londra il Presidente, è intoccabile. Anche perché è probabilmente frutto di uno scambio con la parte meno illuminata della nostra imprenditoria, scontenta per la giusta scelta di aggredire il cuneo fiscale a partire dall’Irpef. E gli scambi si sa sono più vincolanti oltre che meno trasparenti della aborrita concertazione.
Si tratterrà anche in questo caso di provare a ridurre il danno, sulla base di alcuni criteri di base.
Il primo è che qualsiasi cosa si approverà andrà necessariamente rivista all’interno della discussione sul disegno di legge, recuperando una logica coerente ed unitaria.
Il secondo è la riduzione del numero dei contratti a tempo determinato prorogabili senza causale (e la riduzione del tempo complessivo previsto dal dl) e, cosa ancora più importante, la previsione di incentivi e disincentivi alle imprese basate sulla trasformazione o meno dei contratti in contratti a tempo indeterminato.
Il terzo è salvaguardare il carattere formativo dell’apprendistato. Sia il contratto formativo individuale, che per il giovane costituisce la base per dimostrare di avere acquisito competenze nel caso sempre più probabile che non venga confermato alla fine del periodo, e la formazione trasversale, che soprattutto per i meno scolarizzati costituisce l’unica occasione per fare i conti con le insufficienze, spesso drammatiche, della sua formazione di base.
Tutto questo in attesa di cominciare, magari sulla base delle considerazioni di Visco, una discussione vera sulla dignità del lavoro e sull’occupazione.
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