La recensione del libro di Claudio Cerasa (Le catene della sinistra, Rizzoli) uscita sul Foglio, oggi, a cura del vostro affezionatissimo.
È bello dover recensire un libro dedicato alle ‘catene’ della sinistra e scoprire di non esservi nemmeno citato. Consente la massima libertà di espressione.
La linea in cui la tesi di Cerasa si inserisce è da tempo molto popolare: la sinistra deve fare la destra, almeno un po’, per vincere. È la tesi più lontana da quello che penso e si basa su una lettura spesso caricaturale della realtà, sostanziandosi in passaggi al limite del paradosso: per formare una nuova cultura della sinistra, ad esempio, secondo questa suggestiva tesi, le larghe intese farebbero benissimo. E farebbero anche vincere le successive elezioni (cosa che puntualmente non è accaduta giusto un anno fa). Ma alla sinistra la vicinanza con la destra, appunto, fa bene, anche se comporta l’evidente conseguenza che un terzo dei suoi elettori voti per un movimento che contesta proprio questa vicinanza. Sono cose che capitano. Il problema è che stanno diventando strutturali, queste divisioni, e le elezioni europee lo dimostreranno. Ma torniamo al libro di Cerasa. La sinistra deve uscire da se stessa, non fare se stessa. Questa la tesi. Mi chiedo: quando la sinistra avrebbe fatto se stessa? Quando chiedeva a Casini di fare una grande alleanza per sconfiggere il Berlusconi del «tramonto dorato»? Quando l’«agenda Monti» era considerata tipo un testo sacro? Quando rassicurava Monti e lasciava a Grillo i voti del febbraio 2013? Quando ha espresso una critica sociale ed economica all’Europa al tempo della crisi o quando votava tutto quello abbiamo votato in questi anni, compreso il pareggio di bilancio in Costituzione, che gli stessi economisti (anche a destra) non apprezzano?
Anche sulla giustizia ci sarebbe parecchio da dire: secondo voi, la sinistra ha perso più voti per avere difeso i magistrati (molto tiepidamente) o perché ha avuto suoi autorevoli esponenti tra gli imputati, in un sistema di potere che purtroppo è stato, in alcuni casi, molto simile a quelli che voleva rovesciare? Per avere imposto il conflitto d’interessi o per non averlo mai approvato? Per avere – in modo parecchio discontinuo – difeso i sindacati o per non avere tutelato i precari? Per non avere promosso i piccoli imprenditori o per non avere denunciato con sufficiente vigore che non li promuoveva nemmeno la destra che li aveva sostenuti?
Capisco il ragionamento di Cerasa: è in linea con quello che dicevano da giovani sia D’Alema, sia Veltroni, con parole diverse, ma con un obiettivo dichiarato: far uscire la sinistra dal proprio perimetro. Esperimenti in larga misura riusciti, nel corso di una generazione: la sinistra è uscita, parecchi suoi elettori sono rimasti nel perimetro. Per altro, non siamo più negli anni Novanta e dipende da come ci facciamo le domande: davvero ci vuole una politica così anche negli anni Venti o Trenta di questo secolo? Davvero c’è solo Blair o, per dirne una, c’è anche Obama? Davvero dobbiamo puntare a una sinistra superlight che si muova nell’impostazione tracciata dai precedenti conservatorismi, come Blair fece con la Thatcher (che, in ogni caso, non era Berlusconi, ma ci siamo capiti)? Davvero dobbiamo puntare a smorzare le differenze, piuttosto che a farle risaltare? E questo fa bene alla nostra democrazia e alla qualità del nostro dibattito pubblico?
Nemmeno a me piacciono alcuni riflessi della sinistra – diciamo così – istituzionale che Cerasa aborre. Anche certi aspetti della sua ‘romanità’, intesa nel senso di quel quadrilatero (a proposito di perimetri) che frequento solo da qualche mese. Ma non credo che la cura che propone sia quella corretta. E non voglio proprio conservare catene che anche io scorgo, anche se sono diverse, in gran parte, da quelle che vede lui. Cambiare il rapporto con il potere, la subalternità verso il gruppo dirigente del paese, l’ipocrisia di chi predica benissimo e razzola male (e parecchio). Come scrive Cerasa: «La trasformazione della sinistra in una sorta di grande partito-establishment è testimoniata anche dal modo in cui i progressisti si sono spesso accreditati con la classe dirigente italiana adottando la tecnica del camuffamento».
Ecco, e questo è il punto. Il libro di Cerasa ha un protagonista, come è ovvio e giusto che sia: Matteo Renzi. Che potrebbe fare quello che Cerasa gli consiglia di fare: perché le prospettive dell’autore del libro e dell’attuale premier in effetti sembrano molto vicine. Diciamo che per compiere il «progetto Cerasa» Renzi non è partito benissimo, perché, per farlo, si è alleato proprio con quella sinistra delle catene che, lo spero sinceramente, non si candidi a incatenare anche lui, legandosi alle larghe intese (rilanciate: Letta diceva fino al 2015, Renzi fino al 2018), alla fiducia-profondamente-sintonica con Berlusconi, a una certa vicinanza ai poteri costituiti (si veda alla voce nomine), proprio quella prossimità che fa imbestialire Cerasa e che si colloca in perfetta continuità con tutto il passato che Cerasa stigmatizza.
Da ultimo, a me Zalone piace, mi fa ridere, mi sembra anche di volergli bene. Però non c’è solo lui, con tutto il dovuto rispetto. E la cultura non è cosa da parrucconi, è la cosa che ci rende autonomi e consapevoli. E certo ci sono cose noiose, sì. Però forse consiglierei di leggere, insieme a Cerasa, l’ultimo libro di Andrea Bajani (ecco, un intellettuale giovane – tiè – che la sinistra del futuro potrebbe apprezzare). Così facciamo uno a uno. E la palla non la rimettiamo al centro, ma cerchiamo di tirarla, nella porta a destra o in quella a sinistra. Farebbe bene a tutti.
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