Si ferma a 183 il numero dei favorevoli alla approvazione, in prima lettura, della riforma costituzionale del canguro (così detta dalla tecnica utilizzata in Senato per la sua approvazione).
È una riforma che non piace a tutta la maggioranza (non a una parte significativa del Pd, non a ben un quarto di Ncd, non a due dei pochi centristi) e a quasi nessuna opposizione (dal movimento 5 stelle alla lega, dagli ex 5 stelle a Sel), tranne ai due terzi di Forza Italia (dove largo è il dissenso), che – a dispetto di quanto qualche mese fa annunciava, sprezzante, il Governo – è stata comunque determinante. Grazie al patto quotidiano.
L’approvazione da parte del 57% dei senatori, considerato anche il premio di maggioranza, che al Senato ha funzionato male, ma ha comunque premiato soprattutto il Pd e in parte l’ex Pdl, deve avvertire sul rischio che un altro pezzo di Costituzione diverrà non più espressione di quel largo consenso che ci fu alla Costituente (dove i favorevoli furono circa il 90%) ma di una parte.
Il rischio è che sia espressione della parte conservatrice: di quella che vuole una politica sempre più chiusa in se stessa e lontana dai cittadini.
Esclusi dalla elezione dei senatori (eletti dagli eletti tra gli eletti), oltre che dalla scelta dei deputati (viste le liste bloccate dell’Italicum) e con ancora pochissimi strumenti di partecipazione diretta. Ridotti a spettatori di governi che non hanno scelto e su cui il controllo della Camera, unico organo che ancora votano (seppure purtroppo senza poter decidere chi mandarvi), sarà debolissimo.
Soprattutto, però, l’approvazione da parte del solo 57% dei senatori, se sarà confermato in seconda lettura, porterà al referendum popolare. Ciò non avverrà per “concessione del Governo”, come voleva un ordine del giorno, contrario alla ragione e al diritto, approvato in finale di seduta per impegnare l’esecutivo, appunto, a far mancare in ogni caso i due terzi in seconda votazione (perché se la approvazione avviene con questa percentuale il referendum è escluso).
Quest’ordine del giorno negava un carattere fondamentale dell’articolo 138, che, affidando la richiesta di referendum alle minoranze, ne fa uno strumento di queste ultime per opporsi alla riforma, e non certo un plebiscito di stampo napoleonico nelle mani dell’esecutivo.
Per di più questo contraddice anche il libero mandato parlamentare (articolo 67 della Costituzione) implicando che i parlamentari (o almeno alcuni) non votino liberamente, ma secondo indicazione governative, e prefigura così un sistema che più volte si è cercato di introdurre, per cui è l’esecutivo a controllare il parlamento e non viceversa, come la forma di governo parlamentare, e quindi l’articolo 94 della nostra Costituzione, prevede.
Il referendum ci sarà – se le cose rimarranno così – perché la maggioranza è di misura (e forse, a causa dei premi di maggioranza, non rappresenta neppure la maggior parte degli italiani).
Il referendum ci sarà perché lo vuole chi non è d’accordo, a partire dai cittadini. E chi voterà ‘no’ non lo farà per mantenere le cose come sono, ma per un’altra riforma, che finalmente indichi la via alla partecipazione e al cambiamento.
Ma di questo parleremo dopo altri tre passaggi parlamentari. Nella speranza che si possa estendere il consenso intorno alla riforma e migliorarne profondamente il testo.
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