Care e cari,

il lavoro è la questione più delicata e in molti casi più dolorosa per i cittadini e (ancor più) per le cittadine italiane. Andrebbe trattata con rispetto e con misura, per evitare di dire cose troppo strumentali, molto sbagliate e spesso offensive.

Il premier ci dice – quando non se la prende con nemici reali e a volte immaginari – che dobbiamo cambiare un sistema ingiusto, che divide i cittadini in persone di serie A e di serie B e umilia i precari, e che non dobbiamo difendere il sistema vigente, un modello di diseguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età, mentre il nostro compito è difendere i diritti di chi non ha diritti.

Non c’è una sola né uno solo di noi che non sia pronto a sottoscrivere queste affermazioni. Possiamo dividerci su questo? Certamente no. Ci possono però essere soluzioni diverse per arrivarci. E soprattutto c’è il pericolo di adottare misure che peggiorano ulteriormente questa situazione inaccettabile.

A maggior ragione in quanto alla base di questa situazione non c’è un destino cinico ma una politica sbagliata. Che ha precarizzato e svalorizzato il lavoro, che ha premiato gli imprenditori più pigri e più imbroglioni abbandonando a se stessi quelli più coraggiosi e più innovativi, che ha puntato a dividere il mondo del lavoro, quando si deve piuttosto unirlo, e anziché trovare le giuste soluzioni tra gli interessi in conflitto passando attraverso la democrazia ha tentato di imporre d’autorità quelli di una parte.

A maggior ragione in quanto i protagonisti di quella politica sbagliata sono al governo con noi e pretendono oggi di imporre di andare avanti per quella strada. Se invece continueremo per quella strada fallimentare avremo risposto nel modo peggiore alle domande di quelli a cui nessuno finora ha pensato.

Il 29 settembre sarà presentato il Jobsact. A chi? Solo alla direzione o al corpo del partito? Quale Jobsact? Quello della legge delega (vaghissima), che non chiarisce le scelte fondamentali, o quello che scioglierà i nodi, con i provvedimenti attuativi (che sono evidentemente pronti, se potrebbero perfino essere trasferiti in un decreto, d’imperio)?

Con un gruppo di democratici e democratiche abbiamo prodotto un documento che entra nel merito delle scelte. Nessuno pretende di avere la verità rivelata e non chiediamo che sia adottato a scatola chiusa, anche se pensiamo che affondi le radici nell’elaborazione del nostro partito e nella nostra cultura di sempre (non vecchia né nuova, quella di sempre).

Siamo convinti che su questa linea potrebbero attestarsi il Pd, i sindacati, le altre forze di governo, all’insegna di quel contratto unico (unico, però) che si ispira al lavoro di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, con tutele progressive che nel giro di poco tempo possano arrivare a una definizione più sicura del rapporto di lavoro.

Crediamo che così ci si possa rivolgere a Marta, la precaria di 28 anni a cui si è rivolto il premier, ai suoi genitori e ai suoi amici, senza fare facile demagogia, senza cancellare quei pochi diritti che restano, dando più certezza al lavoro di tutti (perché se continuiamo ad abbassare la soglia dei diritti e dei salari non andremo da nessuna parte).

Piuttosto che minacciare il proprio partito con un «cascate male» d’altri tempi, sarebbe meglio mantenere un atteggiamento che non faccia cascare tutto: il governo, il partito di maggioranza relativa e, soprattutto, i diritti delle persone che lavorano o che vorrebbero lavorare.

Abbiamo la pretesa che le posizioni siano esaminate, confrontate, condivise infine. Fino alla consultazione degli iscritti attraverso un referendum, se i processi ordinari di partecipazione capillare non possono essere più messi in piedi.

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