Ai dissidenti non conviene andare a votare, parecchi metterebbero a rischio la propria rielezione.
Così un esponente del governo, qualche giorno fa, su Repubblica, intervistato da Concita De Gregorio. Poi attacca me, attribuendomi cose che non stanno né in cielo, né in terra, ma non fa niente (dice che faccio un’alleanza con D’Alema, quando tutti i dalemiani più prestigiosi, così come i bersaniani più importanti, diciamo, sono entrati in maggioranza e anche al governo, ma non pare che nessuno se ne sia accorto). Ognuno è libero di criticare (criticare Civati, perché qualcun altro, invece, non si può).
Peraltro, anche questa critica fa un po’ sorridere: i dissidenti (che poi i dissidenti sono altri) non hanno posizioni di potere (per scelta, in molti casi, e non hanno quindi niente da perdere), con me hanno fatto un Congresso e una battaglia politica per due anni per chiedere il ritorno alle urne (a me non piace governare con la destra, ad altri sì), i senatori dissidenti hanno tutti un altro lavoro e chi non ce l’ha (per capirci: ha fatto politica negli ultimi anni della sua vita), come Walter Tocci, non fa mistero di non avere tutta questa voglia di ricandidarsi (se le cose vanno così, però, mi toccherà insistere). Casson tornerebbe a fare il magistrato (qualcuno dice il sindaco), Ricchiuti non si fa alcun problema, per fare due esempi.
Ma non è nemmeno questo il punto. Ho atteso qualche giorno, nella speranza che qualcuno smentisse, ma non ha smentito. Quindi procedo con il ragionamento.
Il punto è che questo passaggio la dice lunga sulla cultura politica dei tempi che corrono. Lo nota persino Stefano Passigli, oggi, sul Corriere. Perché ci sono le liste bloccate anche nella nuova proposta di legge elettorale che i rappresentanti del governo hanno fatto votare e votato. Perché ci sono richieste di fiducia (atti di fede) su deleghe in bianco. Perché il Parlamento è piegato all’iniziativa del governo e conseguentemente anche il partito. Perché tutto si tiene, in un processo che, di giorno in giorno, è sempre meno costituzionale. E quando ci si ricandida, in effetti, bisogna chiedere permesso al capo, e magari anche scusa, per averlo, anche soltanto una volta, criticato. Perché è il capo a decidere, chiaro?E il Pd ha votato contro anche alle primarie collegate alla legge elettorale, perché non le voleva Berlusconi (e forse non solo lui).
Chi dice che è per un partito all’americana, in realtà fa il contrario di quello che succede in un partito all’americana. Perché laggiù, con buona pace di commentatori che non sanno quello che scrivono, la constituency elettorale è data a ciascun rappresentante dal suo rapporto con gli elettori, e dall’avere vinto le primarie (a proposito di partito degli elettori). E i deputati e senatori di laggiù votano sulla base di quel mandato, e si dividono, e rispondono della loro coscienza e di coloro che rappresentano. Addirittura, quando si candidano, può capitare che si candidino con una dichiarazione critica nei confronti del capo: è successo con una candidata del Kentucky, del Pd, il cui slogan recita: «non sono Barack Obama», sottinteso: non condivido molte delle sue politiche e ve lo dico prima (il «dirlo prima», tra l’altro, fa parte del problema nel quale ci ritroviamo, perché nessuno, certe cose, ce le aveva mai dette, quando si era candidato).
Ecco, non solo non sono Barack Obama, come potete facilmente constatare, ma non sono nemmeno un servo.
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