Michele Ainis oggi sul Corriere.

L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica. E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benché nessuno l’abbia dichiarata. In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità. In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali. Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no.
Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perché la dottrina del male minore – cara a Spinoza come a Sant’Agostino – ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore. E perché, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale. Ma quella vittima è la legalità.

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