Ecco qual è per me la questione delle questioni, a cui dedicare, sul versante italiano ed europeo, l’anno che inizia.

Si tratta della chiave per spiegare fino in fondo i motivi della mia critica all’attuale schema politico e alle scelte del governo, che vanno tutte nella stessa direzione, rispetto alla quale ci vuole una spinta uguale (aggettivo a cui affezionarsi da subito) e contraria: parlo della questione dell’uguaglianza (misure economiche e scelte che riguardano il mercato del lavoro), della crescita (Sblocca Italia e zero investimenti di segno innovativo) e della rappresentanza (un Parlamento di nominati, senza garanzie e controlli, con l’obiettivo del cosiddetto «partito della nazione»).

Luca Ricolfi ne parla oggi sul Sole.

Vale la pena di leggere soprattutto l’ultima parte del suo pezzo:

Oggi c’è anche una terza società. Una società che c’era già prima, ma che negli anni della crisi è cresciuta di dimensioni, fino a diventare di ampiezza comparabile alle altre due. Questa terza società è la società degli esclusi, o outsider, nel senso letterale di “coloro che stanno fuori”. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare (non importa se a tempo determinato o indeterminato), e invece si trovano in una di queste tre condizioni: occupato in nero, disoccupato, inattivo ma disponibile al lavoro. Si tratta di ben 10 milioni di persone, più o meno quanti sono i membri della società delle garanzie così come i membri della società del rischio.

Ora, il dato interessante è che, ad oggi, questo segmento della società italiana è sostanzialmente privo di rappresentanza. E lo è per una ragione economica, prima ancora che politica. L’interesse degli esclusi è diametralmente opposto a quello dei garantiti, ed è in parte diverso da quello della società del rischio. La priorità degli esclusi è, per definizione, quella di essere inclusi. Il problema è che tale inclusione richiede scelte economiche molto diverse da quelle che hanno permesso a Renzi di dialogare felicemente con la prima e la seconda società. Includere, infatti, significherebbe puntare tutte le carte sulla creazione di posti di lavoro aggiuntivi (a noi ne mancano circa 6 milioni, se come riferimento assumiamo la media Ocse). Precisamente il contrario di quanto, nel comprensibile desiderio di attirare voti, il governo Renzi ha fatto finora e intende fare nei prossimi anni, almeno a giudicare dalle tabelle della Legge di stabilità, che per il 2018 prevedono ancora quasi 3 milioni di disoccupati.

Per capire perché gli interessi del Terzo Stato non siano in cima alle preoccupazioni di questo governo, basta riflettere sulle due decisioni cruciali di allocazione delle risorse effettuate nel corso del 2014, ossia gli 80 euro in busta paga e la decontribuzione per i neo-assunti. I 10 miliardi in busta paga sono, per loro natura, una misura a favore di chi un lavoro già ce l’ha, mentre un loro impiego per investimenti pubblici, o per abbattere l’Irap, avrebbero potuto dare una mano a chi un lavoro non ce l’ha. Quanto ai 5 miliardi di decontribuzione per i neo-assunti, possono apparire un provvedimento per generare nuova occupazione, ma lo saranno solo in misura minima perché, in assenza di vincoli di addizionalità (aumento del numero di occupati rispetto all’anno prima), finiranno per essere usati soprattutto per sostituire chi va in pensione o si dimette per maternità, senza creazione di posti di lavoro aggiuntivi. Un punto, quest’ultimo, su cui le preoccupazioni di Susanna Camusso appaiono tutt’altro che ingiustificate.

Ecco perché, a mio parere, il futuro del Pd e del governo Renzi è meno scontato di quel che può apparire a prima vista. Finché la terza società, la società degli esclusi, resterà sostanzialmente priva di rappresentanza, Renzi e il Pd potranno dormire sonni tranquilli, perché la loro capacità di recitare due parti in commedia, quella della sinistra e quella della destra, permetterà loro di rappresentare sia la prima sia, entro certi limiti, la seconda società. Se tuttavia la situazione cambiasse, e un partito, vecchio o nuovo, provasse a intercettare umori e interessi della terza società, il gioco del Pd si farebbe meno facile. Perché, allora, la domanda non sarebbe più se quel che fa Renzi è di sinistra o di destra, ma diventerebbe improvvisamente un’altra: può esistere una sinistra che lascia ad altri il compito di difendere gli esclusi?

Come sapete, da tempo, in riferimento anche alla «maggioranza invisibile» di Emanuele Ferragina, descrivo il problema politico fondamentale in questi termini: sotto gli 80 euro, per chi non ha lavoro, per chi vive nella miseria (altro che «incapienti» o altri eufemismi), per chi vuole avere una prospettiva che non ha, c’è poco o niente, sia nei termini di reddito minimo che di investimenti in campi innovativi. Si tratta del problema dell’uguaglianza=crescita, se volete uno slogan efficace.

Se Ricolfi lo chiama il Terzo Stato, l’ho chiamata più volte Terza Via, pensando anche a un’altra coppia concettuale, rappresentata da Troika (austerità) e populismo (ribellione). In realtà potremmo parlare di Terzo Escluso, perché dobbiamo riformulare anche la coppia tra destra e sinistra, soprattutto in un paese come il nostro dove la coppia è stata sostanzialmente sospesa fino a essere quasi abolita.

Perché, e lo sappiamo bene, c’è un problema ulteriore, rappresentato dalla rappresentanza, e scusate il gioco di parole per descrivere una questione serissima: chi si sente escluso, finirà per autoescludersi, in un gioco che rinnova, con altri termini, il tema della «servitù volontaria» di La Boétie.

In Appartiene al popolo, con Andrea Pertici, ne abbiamo scritto diffusamente.

A pagina 18:

… alle elezioni europee del 25 maggio 2014 il partito più votato ha raccolto un numero di suffragi molto inferiore rispetto alla numerosissima platea di chi non si è recato alle urne (e infatti il Pd, con il suo notevole risultato, ha convinto, in realtà, solo due italiani su dieci, per la precisione il 22,11% degli aventi diritto). Un dato assunto così, come se non potesse essere altrimenti. E lo stesso vale per chi rifiuta il gioco democratico, non si sente rappresentato, vive tutto con disaffezione, risentimento e a volte con vero e proprio rancore.In un gioco che favorisce una sorta di modernissima «servitù volontaria», nella quale tutti danno per scontato che una quota di cittadini non partecipi più, dapprima esclusi e marginalizzati e poi convinti che le cose stiano così e che non possano cambiare. E da questo punto di vista si può notare un pericoloso parallelismo tra il crescere delle disuguaglianze in campo economico e il diminuire della partecipazione al voto (vedi anche Giuseppe Civati, Qualcuno ci giudicherà, Einaudi, Torino 2014, p. 128, che rinvia all’articolo di Nadia Urbinati, «Se cresce la disuguaglianza», la Repubblica, 4 febbraio 2014).

E, poi, a pagina 158:

Con uno schema dell’alternanza, che dia la possibilità a chi vince di governare e a chi perde di fare opposizione, con le giuste garanzie,
potendosi preparare a competere, nelle successive elezioni, per il governo. In questo modo sarebbe possibile recuperare gli esclusi, in controtendenza rispetto a un dato non solo italiano, che vede scandire in molte piazze di tutta Europa il grido più duro rispetto al buon funzionamento di una democrazia: «non ci rappresentano». Una protesta contro le élite (che oggi sono dette volgarmente «caste»), contro una politica che non interpreta più le esigenze dei più proprio perché collocata tra le élite e non in quel ruolo mercuriale di collegamento tra chi sta in alto e chi sta in basso e con la possibilità, garantita proprio dalla rappresentanza, di invertire le posizioni di potere.

Ecco, ripartiamo da qui, se vogliamo costruire qualcosa a Sinistra, in quello spazio terzo che i media sottovalutano anche perché ancora non c’è. Nella politica, perché nella società è grandissimo. E forse, addirittura, maggioritario.

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