La cosiddetta «buona scuola» che abbiamo visto finora è in realtà piccola, in alcuni passaggi molto cattiva, in generale meno pubblica e più diseguale, grazie all'ormai tradizionale travisamento della parola «merito».

Prevede la stessa verticalizzazione e la stessa riduzione della rappresentanza e della collegialità delle altre 'riforme' di questa strana stagione.

Dimostra lo stesso pressapochismo e la stessa miopia, concentrata com'è sull'effetto presente e poco sulle conseguenze e le opportunità del futuro.

Se qualcuno vuole dire qualcosa di diverso, lo faccia proprio a partire dalla scuola, che solo una pessima politica ha relegato, nell'immaginario, a tema minore, tecnico, quasi sindacale, di cui i presunti leader politici non si occupano, perché hanno di meglio (e di peggio) da fare.

Premessa fondamentale, alla maniera dell'occupatio di cui si serviva Agostino: non c'è una critica di corrente, in quello che troverete qui sotto, non c'è alcun tentativo di frenare la corsa micidiale del premier, c'è una critica di senso, perché – come già per le riforme, con il fossile Sblocca Italia e la tonitruante campagna per la liberalizzazione dei licenziamenti del Jobs Act – semplicemente non mi sento rappresentato da quanto il governo sta facendo.

E vorrei che per una volta si leggesse in questi termini quello che scrivo. Avete vinto voi, che assomigliate molto a quelli che vincevano prima, lasciateci almeno la possibilità di pensare a qualcosa di diverso.

Che cosa ci sia di buono, dicevamo, nella scuola proposta dal ministro Giannini (del Pd) si fa fatica a capirlo. Le ambizioni culturali si limitano a una riorganizzazione aziendalistica, che non è proprio una clamorosa novità, dopo anni di berlusconismo.

Sulla meritocrazia, viene in mente Michael Young e un libro che tutti dovrebbero leggere, perché forse non sanno che chi l'ha inventato usava il termine con ironia e una fortissima carica paradossale, segnalando che alla fine la meritocrazia si autodistrugge, essendo spesso circolare.

Se è vero che il merito e il talento sono un valore relazionale, che si riceve e che cresce non solo per ragioni interne, che deve consentire che il merito si eserciti appunto da parte di tutti i meritevoli, non quelli che lo sono per ragioni ereditarie, di censo, o per nascita, come ci ha ricordato più volte Walter Tocci, forse proprio su questo dovremmo puntare, se pensiamo di formare cittadini e non solo concorrenti, già classificati in chi vince e chi perde fin dall'asilo.

La verità è che si dovrebbe puntare a un ritorno – riveduto e corretto, ma non per questo ridimensionato – alla stagione della collegialità (e della rete) solo modo per realizzare l'autonomia (parola bellissima e nonostante l'etimologia lontanissima dall'aggettivo autoritario): nel mondo della cooperazione (non quella di Mafia Capitale, per intenderci, ma del coworking e dell'intelligenza collettiva), sorprende che l'innovazione non passi mai per questo tema, di cui l'Italia è stata antesignana e protagonista.

C'è poi la consueta ritirata dello Stato che chi è lombardo conosce benissimo, dal diritto allo studio, dall'offerta universale, dalla valorizzazione degli insegnanti, a cui si dovrebbe dare altro stipendio, non – tipo – il bonus per andare al cinema. Una ritirata tipica della cultura politica di quel paradigma che dovremmo superare (si veda a questo proposito Tomaso Montanari, Privati di patrimonio, Einaudi 2015).

Una «guerra tra poveri» a cui bisogna sostituire o forse aggiungere la parola «precari», che deve portare a riformulare il testo, con la pesante modifica dell'articolo 12, per evitare che i 36 mesi per molti diventino una condanna, per fare in modo che la transizione richieda forse più tempo del previsto (per il governo una cosa inimmaginabile, perché bisogna fare tutto e subito, anche se poi non è vero) e chiuda la stagione della frammentazione e della confusione.

Perché il complesso della 'riforma' (virgolette d'obbligo) non va bene, soprattutto nel travisamento del tema dell'autonomia scolastica, lo spiega bene Andrea Ranieri.

Le migliori prove di sé l'autonomia scolastica l'ha data quando tutte le componenti della scuola hanno cooperato per raggiungere gli obiettivi del Piano dell'offerta formativa. Quando il piano è stato costruito in maniera democratica e condivisa. Quando ha trovato Comuni che hanno sostenuto l'autonomia mettendola in rete con le opportunità formative presenti nel territorio. Quando si sono costruite reti di scuole permettere in comune esperienze e professionalità. Cercando di resistere, con l'intelligenza e la passione di tanti docenti, alla drastica riduzione di risorse messa in atto dai governi di centro destra.

Ma il decisionismo semplifica. Il dirigente scolastico deciderà il piano dell'offerta formativa e chiamerà i docenti che ritiene più adatti al progetto da lui stesso redatto. Ne risponderà al Ministero. In mezzo niente. Comuni e regioni non sono neanche, a questo riguardo, nominati. Gli organi collegiali dell'autonomia saranno disciplinati con un decreto delegato entro 18 mesi. Per far cosa non si sa, visto che nel frattempo la legge ha consegnato tutto il potere ai dirigenti. Che tra l'altro i più bravi di loro nemmeno lo vogliono questo potere, perché sanno che l'autorevolezza si conquista sul campo, condividendo responsabilità, oneri e onori.

Christian Raimo è preoccupato, come me, per le parole che significano il loro contrario (si dice plastismo, in questi casi: è il trasformismo delle parole).

In questo mondo orwelliano, in cui le parole significano il loro opposto, la distorsione dell’idea di autonomia scolastica in una specie di franchising è veramente un triste paradosso.

E poi c'è il cinque per mille che, come hanno osservato tutti quanti, non può andare alla singola scuola, ma alla Scuola nel suo complesso, se davvero vogliamo fare in modo che i bambini e i ragazzi che studiano in periferia possano ridurre la loro disuguaglianza (quella più dolorosa) con le scuole del centro. Altrimenti, i genitori benestanti daranno risorse alle scuole benestanti, i genitori meno abbienti daranno ai loro figli scuole meno abbienti. Non si capisce perché il cinque per mille non lo faccia direttamente lo Stato, aumentando direttamente le risorse della Scuola. O forse lo si capisce: si salvi chi può, gli altri si arrangeranno.

Da ultimo, un'annotazione personale: negli incontri pubblici su questo tema, mi sono reso conto sempre di più di quale sia la frattura della sinistra con se stessa.

La famosa scissione c'è stata già. Certo, non riguarda il ceto politico, riguarda le persone, soprattutto quelle che, con più ragioni, si definiscono di sinistra. Ma tutto questo non sembra importare ai politici. Soprattutto a quelli che dicono di occupare i seggi della sinistra.

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