Voglio bene a Gianni Cuperlo e ho condiviso con lui più di una sfida all'interno del Pd.
Non voglio perciò sembrare ingeneroso con lui, ma aprire una riflessione molto seria sul futuro.
Oggi Cuperlo, intervistato da Repubblica, dice così: «Mi auguro non venga rimessa alla Camera la fiducia sulla scuola. Sono stanco di pistole alla tempia…». Per concludere: «Renzi apra gli occhi, il Pd sta perdendo voti e pezzi».
Sono parole che Cuperlo ha spesso pronunciato in questi mesi e che Repubblica ha raccolto qui.
Ora, l'intento è noto e, nelle intenzioni, nobilissimo: provare a cambiare la linea del Pd dall'interno.
Nella prima metà di questa legislatura ci abbiamo provato: non eravamo moltissimi, ma lo abbiamo fatto.
Personalmente ho votato contro il Jobs Act e lo Sblocca Italia, non ho partecipato al voto di fiducia sulla legge elettorale (e avevo criticato duramente la sua prima versione), non ho dato il mio consenso alla riforma costituzionale (sulla quale avevo chiesto maggiore attenzione fin dal primo passaggio al Senato), sono uscito proprio alla vigilia del voto sulla Scuola, perché non avrei votato la fiducia (nel caso), né la presunta riforma (che in realtà è la solita mega delega).
Come Cuperlo, ho sperato che questa consapevolezza maturasse, ma possiamo dire con certezza che questa consapevolezza non ha avuto alcun riscontro. Ed è per questa ragione che a un certo punto, da «rivoluzionari» si diventa «complici» di un disegno conservatore, tutt'altro che innovativo, molto lontano da ciò che siamo e che vorremmo rappresentare. E le persone, a torto o a ragione, perdono la pazienza.
Ieri in Senato solo tre senatori hanno sottratto la tempia alla pistola. Come sempre. Solo tre.
I temi di dissenso non riguardano, d'altra parte, piccole cose: Costituzione, legge elettorale, Lavoro, Scuola, Ambiente. Insieme, formano un programma di governo. Diverso da quello del Pd. E anche da quello che il Pd aveva promesso di fare in campagna elettorale.
Si dice: ci sono le «larghe intese». Giusto. Infatti le ho contestate da subito, in un Congresso intero. Le contestava anche qualcun altro, per la verità, poi quando si è trovato al comando ha deciso di prolungare le larghe intese (più Nazareno) per altri tre anni, rispetto alla stessa previsione del 2013, quando si formò il governo Letta.
Per di più, si è affacciata l'idea di trasformare le larghe intese in un partito del governo (espressione gramsciana) e della nazione. Uno schema che è andato in crisi solo perché a destra si stanno riorganizzando (ringraziando l'esecutivo per avere spostato a destra gli equilibri dell'intero sistema politico) e perché a sinistra non ce la si fa più a votare cose che non sono di sinistra (per semplificare), accompagnate da una linea che picchia sempre e soltanto sulla sinistra, dentro e fuori il proprio partito.
Da ultimo, tutti i tentativi di mediazione sono andati a farsi benedire: ricordo che sul Jobs Act non solo si è abusato della delega e degli impegni presi con il Parlamento (e con il partito di maggioranza relativa), ma si è liquidato con fastidio tutto ciò che era stato proposto dalle minoranze (peraltro molta parte della minoranza lo votò senza fare una piega). E così per tutto il resto. E così anche quando presentammo, tutti insieme, gli emendamenti alla legge di stabilità.
Ho proposto mille volte che si formalizzasse una posizione prima di arrivare in aula. Se cento parlamentari avessero dichiarato la propria indisponibilità sul Jobs Act o sulla Scuola prima di essere costretti al voto – sempre drammatizzato: fiducia dappertutto, sulla legge elettorale, sulle leggi delega, su decreti omnibus – la storia sarebbe andata diversamente.
Ma la minoranza del Pd si è divisa, ha spesso fatto molto tatticismo, ha moltiplicato i punti di vista e le correnti (ne nasce una alla settimana, cinquanta sfumature di Renzi), ha evitato come la peste le proposte più radicali, preoccupata che il governo andasse in crisi. E così alla fine ha votato tutto (eccezion fatta per alcuni, molto pochi, tra cui Cuperlo e altri).
«Per non far cadere il governo, non si può fare altro». Perché il segretario è anche premier (senza rendersi conto che questa condizione, peraltro spesso contestata dalla minoranza del Pd, aggrava la situazione).
«Non ci sono alternative». «Non ci sono possibilità». E quindi qualcun altro insiste, asfalta, promette mediazioni il lunedì che saltano il martedì, dice di voler ascoltare ma poi decide da solo. E gli altri sono costretti a votare. Poi tra due anni, al Congresso, si vedrà, nella speranza che non si voti prima (cosa non improbabile).
Succede da un anno e mezzo. Senza nemmeno la correttezza istituzionale del precedente premier.
Lo chiedo a me stesso e poi a tutte e tutti voi. Come si fa a cambiare le cose insistendo su questo schema?
Il premier, in una delle sue millemila uscite, ha parlato di sinistra masochista, per attaccare Pastorino, che – secondo lui, perché i numeri dicono tutt'altro – gli aveva fatto perdere le elezioni in Liguria (e probabilmente anche in Veneto e forse nei ballottaggi: potenza di Pastorino).
Ecco, forse lo schema masochistico è un altro e riguarda il partito in cui chi comanda disprezza le ragioni di chi lo sostiene e chi lo sostiene contesta le ragioni di chi comanda. In un circolo che non può che essere fondato proprio su quel «ricatto», continuo e incessante, a cui sono sottoposti tutti quanti.
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