Per chi ancora dubitasse che il premier vuole una sua Costituzione, il medesimo è andato a calcare bene la sua firma.

Lo ha fatto oggi intervenendo in Senato, come se fosse un dibattito sulla fiducia al suo governo.

Dopo avere già detto che intende porre il voto popolare nel referendum come un plebiscito nei suoi confronti, ecco l’ennesima identificazione del governo con la revisione costituzionale e quindi eventualmente con il nuovo testo della Carta.

Tutto il contrario di quanto avevano fatto i costituenti, che si erano impegnati (lavorando con continuità e in tempi certi, ma senza fretta) per vedere la Costituzione approvata con quasi il 90% dei consensi (mentre ora si raggiunge di misura la maggioranza assoluta). 

Tutto il contrario di quello che faceva De Gasperi e che insegnava Calamandrei, secondo il quale quando si discute di Costituzione i banchi del governo devono essere vuoti.

Vuoti? Durante questa revisione sono sempre stati zeppi di ministri e sottosegretari, con tanto di premier special guest. Perché il premier non parlamentare, che non ama né rispetta nessuna delle due Camere (anche se si è accanito, per ora, soprattutto sul Senato), dove va così di rado, si è fatto più volte vivo durante il dibattito sulla revisione costituzionale imposta dal suo governo (con la complicità dei parlamentari di maggioranza). 

Anche nottetempo: durante una delle più assurde pagine della storia parlamentare, quando votavamo, alla Camera, circa un anno fa, la Costituzione con una seduta fiume. E – appunto – anche durante il voto del Senato in seconda deliberazione. Quella che dovrebbe servire ai parlamentari per riflettere meglio – in tutta serenità – sulle scelte fatte tre mesi prima. 

Magari anche rivalutando quell’assurdo emendamento che avrebbe spinto la cosiddetta minoranza del partito del premier a votare a favore, solo per l’inserimento, nello stesso articolo in cui è chiaramente scritto che i senatori sono eletti dai consiglieri regionali, di una normetta (collocata fuori posto, per non rischiare ulteriori emendamenti sulla composizione) che butta là – in modo del tutto generico e di per sé incapace di creare alcun vincolo – che lo dovranno fare “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”.

Ecco, mentre i parlamentari avrebbero dovuto fare queste valutazioni, che naturalmente non hanno fatto, il premier, con quella che sembrava un’interpretazione di un noto comico che lo imita, ripeteva l’insistente litania per cui si stava facendo finalmente ciò che si aspettava da settant’anni, cercando – con la sua presenza – di fare pressione sui senatori, invitati ancora una volta a non occuparsi del merito. Con buona pace di Calamandrei. L’unico fiorentino (o quasi) che Renzi non ascolta.

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