A margine di un utilissimo incontro sulla «teoria del gender» che si è tenuto a Verona venerdì 5 febbraio (di cui presto saranno pubblicate le riprese video), ho chiesto a Lorenzo Bernini, che insegna all’Università di Verona, un contributo puntuale sulla partita dei diritti, tra gender, appunto, Cirinnà e dibattito sui diritti. Eccolo qui di seguito (e nel pubblicarlo, ovviamente, lo ringrazio di cuore):

Coniata già a metà degli anni novanta dal Pontificio Consiglio della Famiglia, l’espressione “teoria del gender” è nota al grande pubblico dal 2012, quando un non ancora emerito Ratzinger la utilizzò per opporsi all’introduzione del “matrimonio per tutti” in Francia. Da allora è diventata un potente strumento di mobilitazione anche in Italia, dove il pessimo disegno di legge sulle unioni civili attualmente in discussione, se approvato, limiterà l’accesso al matrimonio ad alcune coppie (quelle etero) e negherà ad altre (quelle omo) lo statuto di famiglie. Contro la teoria del gender sono stati organizzati convegni specialistici e conferenze informative, veglie di preghiera, manifestazioni di piazza. Contro di essa sono state approvate delibere comunali e provinciali. Contro di essa, dopo Ratzinger, hanno tuonato non solo Bagnasco ma anche Bergoglio, e si è schierato l’intero sinodo dei vescovi. Gli obiettivi della ‘crociata’ sono evidenti: non soltanto matrimoni omosessuali, diritto all’adozione e accesso alle tecniche di riproduzione assistita per lesbiche e gay, ma anche leggi contro l’omotransbifobia, campagne di educazione antidiscriminatoria, autodeterminazione riproduttiva delle donne. Certo non stupisce che il Vaticano sia contrario a tutto questo. Soprende invece che non soltanto gli organizzatori del Family day, ma anche voci autorevoli della Chiesa denuncino l’egemonia esercitata sull’ONU e sull’Unione Europea da una oscura lobby anticristiana di pervertiti sessuali che assieme al culto dell’unico Dio vorrebbe abolire la famiglia naturale e la differenza tra i sessi, nonché imporre ai bambini una sessualizzazione precoce e un’identità neutra. Queste sarebbero infatti le finalità della pericolosa teoria – su cui è il caso di fare un po’ di chiarezza.

​Innanzitutto bisogna precisare che il termine inglese “gender” ha un suo corrispettivo italiano, “genere”, e che in ambito accademico non esiste una teoria del gender, ma studi di genere declinati al plurale. L’uso dell’inglese e del singolare sono segni evidenti di cattiva fede: il primo rende il concetto più misterioso, più spaventoso, e suscita fantasmi di colonizzazione culturale; il secondo permette di condensare in un’ideologia compatta quello che è, in realtà, un vasto campo di ricerche interdisciplinari. Scopo degli studi di genere è interrogare criticamente lo statuto della femminilità, della mascolinità e di altre possibili espressioni dell’identità sessuale. I loro risultati permettono di contestare le credenze dogmatiche secondo cui esisterebbe un solo modo, normale e naturale, di incarnare il genere maschile e uno solo di incarnare quello femminile, e secondo cui questi modi esaurirebbero la gamma delle identificazioni sessuali. Gli studi di genere dimostrano inoltre che nessuna famiglia è naturale, che esistono molteplici modi di di vivere relazioni di intimità affettiva e sessuale dentro il o fuori dal legame famigliare. Infine, gli studi di genere forniscono utili strumenti per difendere il diritto di bambini e adulti ad autodeterminare il proprio genere e per elaborare progetti educativi volti al contrasto del bullismo omotransbifobico e alla tutela di tutte le differenze sessuali. Il conflitto tra studi di genere e dottrina cattolica è insomma patente, ma ridurre gli studi di genere alla teoria del gender, e la teoria del gender a un’ideologia propagandata da una pericolosa lobby di pervertiti è un’operazione indebita. E tuttavia niente affatto fallimentare.

​Le retoriche utilizzate dal conservatorismo cattolico per osteggiare le conquiste e le rivendicazioni delle donne e delle persone LGBT stanno trovando infatti, in Italia, ampia eco in altre retoriche. Nel dibattito pubblico attorno al disegno di legge sulle unioni civili, ad esempio, non soltanto i partecipanti al Family day, ma anche settori progressisti e nomi illustri del femminismo stanno osteggiando la stepchild adoption tirando in ballo la natura come surrogato secolare della volontà di Dio. La dissimmetria biologica del sesso maschile e di quello femminile nella riproduzione è infatti sovente utilizzata per contrapporre i diritti delle donne ai diritti delle coppie omosessuali. In questa contrapposizione, la stepchild adoption viene fatta coincidere con la gestazione per altri e questa ricondotta all’unica fattispecie di una coppia di uomini gay italiani ricchi che “affittano l’utero” di una donna indigente di un paese povero. Per un curioso effetto boomerang, la difesa delle donne si rovescia così in un appello alla limitazione della loro libertà di disporre dei loro corpi. Certo gli argomenti e i toni della crociata anti-gender sono altri, ma le conclusioni sono in parte analoghe. Ben poche voci fuori dal coro osano dire che l’autodeterminazione delle donne sarebbe maggiormente garantita non vietando, ma normando la gestazione per altri. Comunque si concluda la discussione parlamentare sulle unioni civili, alle famiglie (pardon, formazioni sociali specifiche) di uomini gay italiani con figli (e ce ne sono!) resterà l’amaro in bocca. E non solo a loro.

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