Non entro nella polemica tra Renzi e D’Alema e Bersani, perché la questione l’ho affrontata – in cuor mio e pubblicamente – due anni fa e fino al maggio dello scorso anno.
Come già al congresso del Pd, il problema non era “di potere” ma di ordine politico e prima ancora culturale.
Le larghe intese ci avrebbero portato a destra. Lo si diceva quando il nuovo leader della minoranza (della minoranza) parlava di Letta e Berlusconi come di Moro e Berlinguer. Ci avevano assicurato che sarebbero durate poco e invece quando si è presentato il segretario del Pd per trasformarle in una alleanza politica prolungata per 5 anni, tutti non solo si dissero favorevoli, ma molti tirarono un sospiro di sollievo. Certo, Verdini fa rabbrividire, ma adesso che sta ricostituendo Forza Italia, forse ci rendiamo conto che si torna, banalmente, al punto di partenza.
La questione non è di potere, quindi, né di posizionamento. E non inizia nemmeno con Renzi. L’habitat naturale per simili operazioni era stato preparato da tempo e per tempo.
Quindi lo si sa e si risa da almeno due anni.
Tutti questi convegni sulla sinistra e sull’alternativa sono controproducenti se poi si vota Sì al referendum sulle riforme costituzionali (per il quale si è accettato un compromesso surreale sull’elettività degli pseudo-senatori).
E non serve a nulla parlare di cambiamento radicale del modello di sviluppo, se poi si è votato per le trivelle e si fa finta che non ci sia un referendum il 17 aprile (retaggio dello Sblocca Italia, votato praticamente da tutti, con eccezione dei soliti due, Pastorino e io, con Bersani che non partecipò al voto, senza dire nulla pubblicamente).
Non ha senso contestare tutto quanto, tutti i giorni, conservando le posizioni di governo e di sottogoverno.
Veniamo a noi. Uscendo dal Pd, siamo usciti dal genere letterario della polemica da giornale. Abbiamo perso visibilità, ma l’avevamo messo in conto. A poco a poco ci siamo messi, con rinnovato entusiasmo, a fare politica, con particolare riguardo alle scelte economiche e sociali (soprattutto quelle che non ci sono) e a un programma sulle cose, sulle «real issues», sulle scelte di fondo, non sul posizionamento (che non abbiamo, ovviamente).
Un lavoro che non crediamo debba essere compreso subito, ma che può costituire le basi per una politica diversa.
Senza cercare sponde nella nostalgia, nella burocratizzazione e nel linguaggio da primo Novecento. Non ci volgiamo indietro alle puntate precedenti (quelli che vogliono tornare ai Ds, per dirne una), né lo abbiamo mai fatto.
Crediamo che, in elezioni Amministrative con il doppio turno, il disgiunto, le primarie piene di buchi come un anno fa, si possa e si debba cercare una strada autonoma, libera, consapevole.
Perché non chiediamo nulla e non dobbiamo rendere conto a nessuno.
Per parafrasare Machiavelli, in un’epoca di crisi, di globalizzazioni, di guerre e di disuguaglianze, di fronte a «un fiume in piena», gli uomini e la politica possono «erigere degli argini». Con strumenti nuovi, ispirati alla razionalità, alla coerenza (anche logica) e motivati da una passione che non si riduce certo a una ‘posizione’.
Per farlo, oltre alla politica del presente (presentismo) e la dichiarazione di ieri che rinverdisce la polemica dell’altro ieri, è necessario guardare al futuro, quello su cui tutti sono in affanno.
Il 17 aprile si vota per o contro le trivellazioni? Noi vogliamo parlare di quanto si può fare al posto delle trivelle, puntando su investimenti qualificati e qualificanti (con un molteplicatore molto alto) per rendere il nostro Paese sempre più autonomo sotto il profilo energetico e per consegnarlo ai nostri figli perché non dipendano da tutti quanti gli altri (che di solito peraltro sono armati).
C’è l’emergenza delle migrazioni: noi pensiamo a un progetto strutturale, che riguardi l’intero Paese, perché possa essere programmata l’accoglienza, in modo legale e razionale (e stiamo lavorando per metterlo a disposizione di tutti).
C’è la questione delle disuguaglianze, e noi stiamo preparando un programma elettorale che sappia ridurle, senza fare spot e senza dilapidare miliardi di euro come si continua a fare, festeggiando per l’0,1% di aumento, smentito nel trimestre successivo.
C’è la sfiducia verso le istituzioni, e non ci pare affatto una buona idea concentrare tutto il potere, abusare della delega, azzerare il decentramento, banalizzare la rappresentanza fino a dissolverla.
Queste sono le cose fondamentali. Tutto il resto è (letteralmente) noia.
P.S.: se uso il plurale è perché credo che questo approccio sia condiviso da molte e molti. Che si aspettano qualcosa di diverso da otto pagine di polemiche ombelicali, ogni giorno, sui giornali. Abbiamo già dato.
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