Marco Damilano ha scritto un pezzo magistrale sul tempo politico che stiamo vivendo in Italia. Mentre il premier riprendeva su Twitter gli entusiasti dello j'accuse della coppia renzianissima che Damilano commenta, a me è sembrato che tutta questa vicenda fotografi perfettamente la situazione nella quale siamo: circa le decisioni (ah, le decisioni!) e sulla loro (scarsissima) qualità, circa la cultura politica che le ispira, circa il ceto politico (e intellettuale) che le sostiene, circa il linguaggio e sull'aggressività che lo permea di sè.
Dopo avere fatto opposizione a questo tipo di "riforme", e di cultura politica, e di linguaggio, e di gruppi di spinta ben da prima che ci fosse l'attuale governo (negli anni a.R.), avere documentato in ogni atto parlamentare il mio dissenso sulla base del testo che ci veniva di volta in volta presentato (dal Senato dei 108 sindaci, prima proposta, alle scelte elettorali del Porcellum con le ali chiamato Italicum), sono confortato da quanto scrive Damilano.
Non solo per quanto vi è scritto, ma per quanto si può leggervi in filigrana. Ovvero che è ciò che manca a doverci riguardare: la costruzione di una classe dirigente, l'apertura verso uno scenario politico e intellettuale diverso, la qualità di una cultura politica contemporanea e capace di senso presente e futuro (non quella che si rifà agli anni Ottanta del secolo scorso, quasi fosse un imprinting di questa generazione di governanti, un fanciullino di cui non ci si riesce a liberare). Ecco, proprio a questo dobbiamo dedicare i prossimi mesi. In una sfida non da tifosi, con botte di narcisismo e di atteggiamenti cazzari (termine tecnico), ma da persone che si prendono la responsabilità di quello che fanno e che propongono. Delle parole che adottano per spiegarne il contenuto. Delle ragioni a cui si richiamano per spiegare il perché: perché lo fanno, perché così.
Tutte cose che mancano. A destra e a manca, appunto.
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