La notizia è questa e Giulio Cavalli giustamente è duro nel commentarla.
Nel Canton Ticino dicono «Prima i nostri», che è esattamente quello che dicevano (e dicono) quelli che vivono al di là della frontiera. Per altro usavano gli stessi manifesti, se è vero che quello famoso degli indiani in riserva lo avevano usato per primi i 'leghisti' ticinesi.
I nostri chi sono? Davvero i ticinesi sono loro? E gli italiani, anche? I nostri sono quelli di Varese, che già al di là dell'Appenino sono meno nostri? E quelli di Lugano? E chi lavora sul confine come si organizza, tra nostri e nostri?
E quando arrivano da più lontano e sono loro-loro, che facciamo? Tiriamo su un muro? E ruspiamo tutto quello che c'è attorno?
Stefano Catone indica una possibile soluzione: leggere i dati, proporre soluzioni che intervengano sugli effetti (certamente, perché possono essere dolorosi) e che però risalgano fino alle cause, per affrontare quelle, con scelte nette, in tutti i campi.
E iniziare dalla cosa più antica del mondo: far rispettare il lavoro. Perché il punto è lì, anche se ovviamente si fa finta di non vederlo: se per tutti ci sono giuste retribuzioni e vigono regole di civiltà, sarà sempre più difficile mettere i lavoratori gli uni contro gli altri. E se a questa sfida concorresse anche chi il lavoro lo dà, allora non ci sarebbero dumping e altri strumenti che arricchiscono qualcuno e che penalizzano e dividono soprattutto gli ultimi della catena. Non più solo precari, ma nuovi schiavi. Non solo merce, ma la merce della quale può più variare il costo. Fino a zero o quasi.
Lo dice la Costituzione. La nostra.
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