Leggo continue dichiarazioni da fine del mondo, da Franceschini a Benigni, sull'esito del referendum (di ottobre che è diventato) di dicembre.

Dovevano cessare – così ci avevano promesso – ma non cessano. Come la personalizzazione da parte del premier, che doveva essere abbandonata: proseguono senza requie (unica cosa che sembra essere caduta: le dimissioni del premier in caso di sconfitta, prima sbandierate, poi ritirate).

Direi tre cose.

1. Se vince il No, non ci sarà nessun effetto tragico. Mantenere una Costituzione equilibrata forse darà fastidio a qualche banca d'affari e a qualche potere forte (anche se l'articolo di ieri dell'FT sembrava dimostrare qualche cautela in questo senso), ma non cambierà certo i nostri rapporti con l'Europa né con il resto del mondo. Quando Berlusconi perse il referendum, peraltro, non ci fu nessun dramma, tanto che dopo due anni tornò al governo. La crisi colpì il nostro Paese di lì a poco, per altre ragioni.

2. La continua insistenza sull'argomento dimostra la fragilità dell'impianto delle 'riforme' e lo scarso consenso di cui gode il governo: se davvero fosse così autoevidente il beneficio di questa riforma, perché mischiarlo con argomenti spuri? Perché drammatizzare il conflitto? Perché esasperare un argomento così delicato? Al massimo, così facendo, si ottiene l'effetto dell'«al lupo, al lupo», senza concentrarsi sul merito della questione.

3. Al rischio di uno stato d'ansia generalizzato, peraltro, si accompagna la sensazione che metterla così non aiuti affatto né le ragioni del sì (che a noi del no potrebbe anche andare bene), né la qualità del dibattito che diventa ogni giorno di più (e inevitabilmente) appannaggio dei tifosi più scalmanati e non sempre più informati. Non proprio il clima ideale per affrontare una revisione costituzionale.

Se davvero il nemico è il «populismo», come si continua a ribadire, e data per buona la definizione di «populismo» usata in modo così generalizzato (definizione «populistica» in sé stessa), viene da chiedersi perché, a due mesi dal voto, ci si trovi di fronti a due atteggiamenti «populistici», da una parte e dall'altra. Atteggiamenti lontanissimi e che però si assomigliano molto. E che ci allontanano da una dialettica più sensata e nel merito. Che tutti invocano, ma quasi nessuno pratica.

Volete una conferma di ciò? Leggete i commenti a qualsiasi dichiarazione o affermazione che compare sui social: dopo venti secondi si menano tutti, a prescindere dal contenuto, spesso adottando quel modo di conversare amabile fatto di formule (omeriche) che ormai entrambi gli schieramenti in campo hanno fatto proprie. Tanto che è difficile distinguere da dove provengano. Perché sono identiche.

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