Scissione elettorale. Nel 2013 milioni di elettori di centrosinistra non votarono il centrosinistra. Nessuno si è chiesto perché ciò sia successo. Anzi, si usciva dalle larghe intese con cui si era conclusa la legislatura precedente e si è inteso proseguire per due anni, poi addirittura per cinque.
Scissione programmatica. Il programma del 2013 diceva alcune cose che sono state ribaltate. Ed era un programma che il centrosinistra aveva fatto sottoscrivere agli elettori, in occasione delle primarie, con una buona dose di sadismo. La «scissione» si è vista sul lavoro, sulla scuola, sulle politiche ambientali, sulle tasse sulla casa, sul contante, ecc. Per comporre la «scissione» qualcuno ha pensato al ponte sullo Stretto, simbolo delle politiche della destra. Ecco.
Scissione mancata. Quella della legge di riforma costituzionale, che sarebbe stato più corretto e costituzionale, appunto, dividere in più leggi di riforma, approvando soltanto quelle intorno alle quali si poteva riunire una maggioranza parlamentare significativa. In compenso, se è mancata la «scissione» delle leggi di riforma, è stata approvata con fiducia la «scissione» delle leggi elettorali. E la «scissione» da ciò che è costituzionale è stata recentemente ribadita dalla Consulta.
Scissione politica. Il centro e la sinistra sono stati separati dalla svolta a destra, nei toni, nei contenuti, nelle scelte, nelle parole, nelle persone individuate come interlocutori. La sinistra è stata vissuta con fastidio, come un impiccio, alle prese con il gettone da inserire nell’iPhone.
Scissione dalla realtà. La vicenda Mps e il ritardo con cui la si è affrontata dimostrano che per astratte ragioni politiche, rovesciate peraltro nel voto del 4 dicembre, si è preferito prendere nettamente distanza dalla realtà. La stessa faraonica retorica della ripresa è sembrata «scissa» dalle reali condizioni del paese. Avere preferito mosse elettorali a politiche sistematiche di riduzione delle disuguaglianze e di investimento strategico ha fatto il resto.
Scissione in casa. Michele Emiliano prosegue nella sua durissima campagna contro il Pd di Renzi e porta con sé una domanda: ma se il Pd è il partito delle banche e dei petrolieri e dell’establishment, come lo ha definito più volte, si può cambiarlo o si fa prima a abbandonarlo? Perché ammesso e non concesso di vincere il congresso e ammesso e non concesso che il congresso si celebri, chi dice così poi si troverà ad avere a che fare con le stesse persone così duramente rappresentate: come farà a convivere con chi lavora per le banche e i petrolieri? E viceversa?
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