Chi mi conosce sa che ne parlo fin dai tempi del Jobs Act, dello Sblocca Italia, dell’Italicum, della ‘riforma’ costituzionale, della Buona Scuola: era l’autunno-inverno 2014-2015. Posi il problema sul piano politico, culturale, spiegando che la vera «scissione» con una parte consistente dell’elettorato era maturata alla fine della legislatura precedente, culminando nel risultato delle elezioni del 2013. E che l’ulteriore diaspora (questa è la parola che usai allora, valida ancora oggi) era iniziata per una ragione semplice: che quando si vincono le primarie, bisogna tenere conto anche del risultato degli altri, almeno in parte, almeno un po’.

Le primarie non sono elezioni qualsiasi, maggioritarie, chi vince vince e gli altri si attacchino. «Le primarie non si perdono mai», dicevo un tempo (prima di provarci personalmente, intendiamoci) perché l’intelligenza di chi vince sta proprio nell’affermare la propria linea politica senza brutalizzare quella degli altri concorrenti.

Ora, dal 2014 ciò che è successo è che si è imposta una linea politica, umiliando quella degli altri. Chi ora si rappresenta come unitario ha fatto ciò che gli pareva, senza un vero confronto con chi gli faceva notare che il programma elettorale del 2013 era un altro, che le ‘riforme’ facevano acqua da tutte le parti, che l’Italicum (a cominciare dal suo cuore, il ballottaggio) era a rischio di costituzionalità, che lo Sblocca Italia avrebbe potuto scriverlo la destra berlusconiana (e l’aveva scritto Lupi con Incalza), ecc.

Chi ha deciso di non tenerne conto è sempre lì, a ribadire la stessa cosa. Colpa degli «scissionisti» è stata allora di non fare fronte comune, di esorcizzare la questione dell’«uscita», di ridicolizzare chi poneva il problema: il mitico «dove vai?» di Bersani risuona ancora. Due anni fa.

In verità, il problema è ancora un altro: non si devono guardare le cose dal punto di vista del ceto politico, no, si devono guardare dal punto di vista della sostanza. Che è culturale e politica, insieme.

Il ceto politico ha tempi e dinamiche proprie. Si autorappresenta attraverso un sistema mediatico che gli assomiglia, spesso ne dipende, quasi sempre lo rispecchia. Nel ceto, la questione del potere si sovrappone a quella politica più generale, oscurandola, come in una eclissi. E così oggi assistiamo a un dibattito lunare, in cui chi ha sempre disprezzato le minoranze non si capacita delle loro decisioni. In cui uno dei leader della «scissione», come Rossi, se ne va dopo avere fatto dichiarazioni da montagne russe negli ultimi tre anni su qualsiasi argomento. In cui tutto matura rispetto alla data del Congresso, tanto che ancora oggi, alle ore 10.30 di martedì 21 febbraio 2017, Emiliano chiede di spostare di un mese la data delle primarie, così da poter rientrare.

Il problema non è quel mese, il problema sono gli ultimi tre anni. E quelli prima, anche.

Se scrivo tutto questo, dati causa e pretesto, è perché penso che si debba provare uno schema inedito, che riassumerei così: si parta da un progetto elettorale, scritto e sottoscritto, nitido, impegnativo, ambizioso.

Si scelgano le persone migliori per rappresentarlo, senza ricorrere a metodi tassonomici di correnti e aree, ma cercando i ‘migliori’ nella società, costruendo con loro una nuova politica, prima ancora di una nuova sinistra. Non uno, ma cento leader, capaci di dare voce all’Italia spaesata dalla propria politica.

Lo Spaese, potremmo definirlo, che si chiede perché seguire la diretta di SkyPd24, che legge di posizionamenti che non capisce nemmeno, che si chiede che cosa importi davvero ai suoi politici. «Se niente importa», verrebbe da dire, vale tutto e insieme non vale nulla e nulla è rappresentato. Né chi rimane, né chi lascia.

E invece si faccia una grande campagna (non solo italiana) sulle trasformazioni «planetarie» che ci interessano, che si rovescino le parole della cronaca di questi giorni ci si occupi piuttosto della «scissione» del Medioriente che porta devastazione e profughi, delle «coalizioni» delle multinazionali che decidono tutto (il vero Stato sovranazionale realizzato, da pochissimi, per se stessi), della «tragedia» e del «suicidio» che riguarderanno l’intero pianeta, se non faremo qualcosa per i cambiamenti climatici (in quel caso, la «corrente» da seguire è quella del Golfo), dei «sondaggi» secondo i quali i lavoratori saranno sostituiti dai robot (forse un giorno succederà anche per i politici, come qualcuno si augura, con vincolo di mandato e tutto) e nell’attesa sono pagati a cottimo.

E chissene del PdR (ovvero del partito “suo”) e dei suoi equilibri, dell’Ulivo fossile che tutti citano e nessuno ha mai voluto fare davvero, delle formule più assurde e improbabili che non spiegano nulla e che capiscono sempre meno persone.

Con Possibile, con tutti coloro che vorranno provarci, ci troviamo a Roma, da venerdì a domenica, per parlare di queste cose «planetarie», appunto. Il resto lo lasciamo volentieri ad altri. Che tanto è finto e noioso e, come si è dimostrato il 4 dicembre, né utile, né vincente.

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