Scusate lo spoiler, perché si tratta delle ultime pagine del libro di Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica (Laterza, 2017). Però in poche righe è condensato un discorso tutt’altro che banale, che riguarda la comunicazione ma soprattutto la politica e la formulazione della sua proposta, in un momento in cui tutto è talmente polemico che si fatica a distinguere i contenuti di questo o di quello, essendo questo e quello impegnati in una continua e efferato provocazione dell’altro tesa alla sua demolizione.
Per funzionare, la narrazione non dev’essere mai disgiunta dalla visione. Visione, va da sé, del futuro del paese: nitida, lineare, condivisibile da una maggioranza degli elettori. E allora perché non provare a spostare la nozione di chiarezza dalla forma al contenuto?
E, aggiunge Antonelli, «Rem tene, media sequentur».
Meno selfie autocompiaciuti, che tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo escludono, attraverso i quali specchiarsi senza vedere oltre, e più prospettiva verso la realtà: meno narcisismo, come ci ricorda il mito, significa anche meno effetto eco («ecolalia», dice Antonelli, e quindi «ripetizione ridondante»). E poi meno specchi che riflettono i protagonisti e le loro parole perché il dibattito assomiglia sempre di più alla famosa scena della Signora di Shanghai (ricordate come finisce?).
«Bisogna avere il coraggio di rifiutare la semplice logica del rispecchiamento» ed evitare che il politichese diventi «politicoso» e che si passi, insomma, da una neolingua a una non-lingua che parlano tutti ma non capisce più nessuno.
Da ritagliare e conservare.
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