Exit West, il libro di Moshin Hamid, già formidabile ne Il fondamentalista riluttante, è a oggi il libro dell’anno.

È un romanzo sulle migrazioni della nuova umanità. Ha un’intuizione geniale circa il passaggio attraverso le «porte», quale salto e momento oscuro, che è giustamente considerato per quello che rappresenta, in un’intera vita: una parentesi, un momento, un passaggio, a ricordarci che la vita dei migranti non sta tutta , non si definisce solo né soprattutto per quello, né il suo significato dipende da quel passaggio esclusivamente.

Non è un libro buonista, come direbbero i commentatori (di quasi tutte le parti politiche, ormai) che i libri hanno smesso di leggerli troppo tempo fa, pensando che non serva leggere e capire, ma solo dichiarare, definire, etichettare.

Nella struttura del libro però c’è una sorpresa, che si fa strada pagina dopo pagina, che non svelerò. Mi limiterò a osservare che ci si rende conto che la migrazione è la vita stessa. E che riguarda tutti noi, in profondità. Una migrazione che corrisponde a un viaggio, a un transito e un passaggio complessivo, che definisce tutti quanti noi, anche chi è più stanziale, perché il mondo intorno a noi cambia, fino alla fine, e migrano le persone, le storie, le relazioni, gli amori. Sbarcano in territori inesplorati, incontrano resistenze, subiscono rovesci e naufragi, blocchi e nuove speranze, addii e lutti, sconvolgimenti e ripartenze. E ciò vale per l’esistenza di ciascuno, ma anche per la vita collettiva, perché nel mondo che attraversa le porte il mondo stesso si trasforma e una porta attende tutti noi, verso un futuro che non conosciamo.

È una questione politica, che Hamid descrive con rara nitidezza, ma è soprattutto una questione umana. Non umanitaria (certo, anche umanitaria), proprio umana.

Leggetelo, fa bene.

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