Bernie Sanders fa due cose piccole eppure importanti nella sua Guide to a Political Revolution (per ora solo in versione originale). Alla fine di ogni capitolo della sua guida, propone alcune modalità per mobilitarsi e indica collegamenti a studi attraverso i quali approfondire la conoscenza della questione che caldeggia, indicando le fonti e soprattutto i luoghi di iniziativa politica. Non i suoi comitati, né la sua rete di sostegno: Sanders offre una rassegna delle reti e delle associazioni indipendenti che se ne occupano (a prescindere da ciò che Sanders fa, per capirci), mostrando ciò che nella società americana è già presente e attivo. Quel «possibile», diremmo noi, che è già in campo, che non dipende da noi, che non ci ha aspettato. Che rende migliore la società in cui viviamo, che dà battaglia su questioni che riguardano la giustizia, economica e sociale, che si preoccupa di estendere i diritti, di tutelarli, di trovare soluzioni più avanzate per vivere meglio, tutti quanti.
Mi sembra una forte inversione di senso rispetto alla politica tradizionale, che propone se stessa in continuazione e cerca di mettere il cappello a tutto quanto: il cappello Sanders lo cede volentieri a chi è già impegnato ed è lui a condividere (any sense) argomenti e questioni di chi prende a riferimento.
Insieme a questo passo di Sanders, viene in mente ciò che scrive Timothy Snyder nelle sue Venti lezioni (Rizzoli, 2017), in particolare la numero 15: «Aiutate la società civile ad aiutare chi fa qualcosa di buono». Chi fa politica, con altri mezzi e in altri termini, soprattutto le ong, tanto bistrattate di questi tempi. Chi si preoccupa di diffondere una cultura politica rispettosa, chi si prende cura dei diritti degli esseri umani (e degli esseri umani stessi). Rovesciando un celebre luogo comune, chi pensa bene e quindi parla bene. E, non dimentichiamolo, chi parla bene, fa bene (e fa del bene): sono le cose buone, insomma (buoniste? Forse, anche), che vanno sostenute, senza condizioni.
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