Come sempre «nel merito» la nostra analisi del referendum lombardo e del referendum veneto.

Un referendum inutilmente strumentale, inutilmente costoso, inutilmente elettorale: inutile, insomma.

Generici i due quesiti, peraltro diversi tra loro, che non portano a alcuna modifica legislativa e non definiscono nemmeno il campo di intervento.

Irrilevante la questione, già affrontata dai due consigli regionali dieci anni fa, nel 2007. Ci intendono far votare una cosa già votata da loro: siamo al surreale.

Strumentale in chiave elettorale la votazione a pochi mesi dalle elezioni per la Lombardia e per entrambe le regioni dove governano i due proponenti. E governano da sempre, con la stessa maggioranza: Formigoni passò il testimone a Maroni, Galan a Zaia. Hanno avuto vent’anni e passa per fare le cose mirabolanti che propongono e spesso erano contemporaneamente al governo anche a Roma (sia Maroni che Zaia, faccio notare). Non ce l’hanno fatta e ora chiedono il voto agli incolpevoli cittadini.

Costosa la realizzazione: Maroni ha accantonato 22 milioni solo per l’acquisto dei tablet. Insieme, secondo le stime più caute, i due referendum costeranno tra i 40 e i 50 milioni di euro.

I promotori hanno cavalcato la Catalogna per mesi per poi precipitarsi a spiegare – dopo i fatti di Barcellona – che ci sono grandissime differenze tra la Catalogna e il Lombardo-Veneto: una figura barbina, che la dice lunga sulla qualità della proposta.

Il fronte della destra estrema si è diviso, perché non sanno più a che sovranismo votarsi. Meloni ha parlato di «oltraggio alla Patria inutile e pericoloso», dalla Lombardia un assessore di Maroni ha risposto che Roma è «una capitale nordafricana». Nel frattempo dalla Romagna fanno sapere che sarebbe il caso di separarsi dall’Emilia. Viva l’Italia.

Non avesse avuto il sostegno del M5s e di autorevoli esponenti del Pd, a cominciare da Giorgio Gori, candidato renziano alla presidenza della Regione, questo referendum sarebbe già stato archiviato.

Ora tocca ai lombardi e ai veneti: non partecipare al voto e, quindi, non legittimare in alcun modo sotto il profilo politico e istituzionale una cosa del genere è un segnale di civiltà politica.

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