«Nessuno più al mondo deve essere sfruttato», si diceva un tempo. Oggi, invece, si sfrutta tutto ciò che si può.

Uno sfruttamento che troviamo tra i collaboratori, nel tempio della Repubblica, perché i parlamentari non pagano loro stipendi né contributi, di cui ci siamo occupati più volte in questa legislatura.
 
Uno sfruttamento di Stato per i precari della ricerca, in quegli enti – che dipendono direttamente dai ministeri – che dovrebbero essere il fiore all’occhiello della Pubblica amministrazione e invece sono precari a vita, fino alla pensione: è non è un’iperbole.
 
Uno sfruttamento delle risorse del lavoro e della produzione che sta portando alla chiusura di uno stabilimento legato a un marchio prestigioso, Melegatti, in una delle province più ricche d’Europa.

Uno sfruttamento delle risorse ambientali, in un trionfo del principio per il quale i profitti vanno a qualcuno, mentre dei costi e delle ricadute sociali nessuno intende occuparsi e nemmeno li quantifica.
 
Il nostro viaggio nel lavoro parte dalle condizioni più improbabili e indegne. Quelle che Marco Omizzolo, segnalandomi il rapporto di Inmigrazione definisce con «le cinque P»:
 

Pesanti, precari, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente

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Si dà conto in quel reportage delle condizioni di vita dei Sikh nel Pontino. Giornate infinite, paghe orarie al di sotto della dignità umana, diritti parziali o negati. Se si pensa però che ciò riguardi solo i Sikh, ci si sbaglia di grosso. Riguarda il mondo del lavoro nel suo complesso, in un numero sempre più grande di settori. Col turbante o senza, poco importa.
 
La politica ha negli ultimi anni usato fabbriche, officine e campi come metafore, per raccontare se stessa. E ha generalmente perso di vista le condizioni materiali di lavoro, le retribuzioni e un mercato che sta condizionando, in peggio, le vite di milioni di persone.
 
Vale anche per chi scrive un pezzo per un giornale nazionale, magari raccontando lo sfruttamento, che è sfruttato a sua volta. Sfruttamenti che si raccontano. La storia di G. che ogni pezzo che scrive guadagna 5 euro lordi, dopo anni di lavoro presso quella redazione. La storia di chi si trova a guidare convogli pieni di materiale incendiario per pochi euro: tutto in regola, ci mancherebbe. Le vicende che riguardano chi fa i lavoretti e le corse per il corriere. Chissà come si chiama cottimo nello slang molto in voga tra gli «addetti ai lavori» che commentano il lavoro degli altri.
 
Di salari non parla più nessuno. È parola vecchia. Desueta. Trascurabile. Non fa fico. Le cose che erano essenziali, un tempo, ora sono eventuali.
 
Gli «irregolari» nel lessico politico sono i migranti. In realtà «irregolari» stanno diventando tutti quanti. O forse, più semplicemente, «irregolare» è questo sistema e il nostro paese.
 
Per ribaltarlo bisogna scegliere le parole che non si usano più e fare proposte politiche precise e proprio per questo radicali. E bisogna capire, cazzo, che questo è il punto per tornare a creare solidarietà tra le persone, quella che manca, perché ci hanno spiegato che non serviva più, con i risultati che vediamo.
 
Prenderne coscienza, insieme, è il primo passo. Costruire soluzioni viene immediatamente dopo: un salario minimo legale che «tenga su» la contrattazione nazionale. Il contrasto al nero, in tutte le sue forme. La progressività per dare più risorse a chi ne è privo e fare dell’Italia un paese più ricco, per tutti però, non solo per i pochi. Per gli esclusi, anche, non solo per gli esclusivi.

Il nostro viaggio prosegue: se volete partecipare, denunciando e proponendo, scrivete a civati gmail com.

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