L’ultimo libro di Naomi Klein si intitola: «No is not enough». E mi ha fatto pensare, quel libro e quel titolo, soprattutto, alle vicende costituzionali che abbiamo vissuto negli ultimi anni e le battaglie civili che molti di noi hanno scelto di interpretare, senza pensare alle convenienze, ai gruppi di potere locale (e non solo locale), all’orientamento prevalente nella propria università, nel proprio gruppo di ricerca, nella propria cerchia di studiosi.
Persone che si sono mobilitate in ragione della loro competenza e attraverso di essa.
Una sorta di patriottismo repubblicano e costituzionale, quello di cui parla Maurizio Viroli, che porta le persone a esporsi per le cose in cui credono e dire alcuni no, anche se così facendo hanno detto «no» alla carriera, alla crescita delle proprie retribuzioni, al conforto di chi ha risorse e quindi disponibilità.
Ovviamente, nella politica dello yesman, dei capi che decidono e del conformismo di tutti gli altri nei loro confronti, dire «no» è considerato un errore di per sé. La società del sì non tollera che si abbia qualcosa da obiettare.
Credo che sia venuto il momento che questi «no» possano trovare risposte diverse: un nuovo modello di sviluppo, una programmazione delle «opere» basata su un’analisi costi-benefici (rinunciando alla grandeur in favore dell’intelligenza e della misura), un modello più ecologico e efficiente nella mobilità, l’adozione di misure che riducano le disuguaglianze, strumenti di partecipazione e di controllo democratico, attraverso una strategia politica complessa.
Una risposta politica a quei «no» che sappia proporre sfide più alte e insieme più semplici, come quella dell’efficienza energetica (espressione che mi è toccato ripetere più volte, il 3 dicembre, nella speranza che la politica ne prendesse finalmente nota).
Per farlo, non si può che coinvolgere chi ha contestato ciò che si spacciava per inevitabile, all’insegna della signora Tina e di quello che il potere presentava come realtà: penso a chi come Enzo Di Salvatore ha condotto una rigorosa campagna sulle trivelle, penso a Marco Omizzolo e a chi si è esposto contro il caporalato e tutto ciò che gli sta intorno, penso al libro di Christian Raimo, con il suo duro j’accuse contro il classismo della scuola non più davvero pubblica, penso a chi si è mobilitato per la tutela del paesaggio, per un’urbanistica diversa, per la difesa del suolo. E ovviamente a chi ha fatto campagna per il «no» ad una riforma costituzionale che ha diviso il Paese, sulla base di un disegno di potere.
Nella fase di elaborazione di una campagna elettorale che tutti danno per scontata (e in effetti sono già partiti i saldi miliardari delle proposte dei «grandi leader»), non può mancare un confronto con chi ha posto «problemi» (mi viene in mente un celebre passo di Popper, che una volta citavano tutti, ma ora è diventato ideologicamente impegnativo pure lui) e preteso soluzioni diverse. E a chi, come oggi Carlo Rovelli sul Corriere chiede di più dalla politica italiana, sulla guerra, sui cambiamenti climatici, sugli armamenti. Aggiungerei, se posso, la lotta alla fame. Che non è il massimo, come qualcuno potrebbe pensare, è il minimo che si possa fare.
Il libro di Klein non si conclude con un appello generico, ma con il manifesto del «Leap», del «salto», un’iniziativa canadese da cui ricavare molte idee e molte spunti. Per rispondere ai «no», per cambiare le cose.
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