Dario Di Vico raccoglie il suo lungo – e, potremmo dire, quotidiano – lavoro sulle disuguaglianze in un volume prezioso, che si intitola Nel Paese dei disuguali (Egea).
La tesi centrale del testo è che la disuguaglianza si dica in molti modi, abbia ragioni diverse, si declini in modalità sempre nuove, in ragione dei processi di globalizzazione dell’economia e dei mercati ma anche del nostro dato storico e politico precedente. Disuguaglianze che riguardano i ceti, i generi, le generazioni, le aree geografiche. Che hanno una dimensione economica, ma non solo quella.
Le disuguaglianze si presentano subito, alla nascita e nei primi anni di vita, e ciò ha molto a che fare con la scuola e con i servizi per l’infanzia, negati a moltissimi italiani. La più parte. Così come accade per il lavoro, per le politiche attive che non ci sono e la difficoltà di dare «forma» ai diritti e alle garanzie e sostanza alle retribuzioni, senza bloccare tutto.
Di Vico, ricordando l’elefante di Milanovic, invita a non confinare però il problema della disuguaglianza in «una sorta di mera contabilità nazionale», come se si potessero separare le cose, tra noi e la Cina, ad esempio: per Di Vico ciò non solo è insensato, ma ci conduce ad analisi inevitabilmente parziali e incerte. Il superamento delle disuguaglianze è una ricerca politica che deve considerare molti fattori e le loro interazioni.
Le ultime pagine del libro andrebbero infine conservate e portate con sé in ogni momento della campagna elettorale.
Come sostiene il politologo Luigi Curini in un libro non ancora uscito in versione italiana [Luigi Curini, Corruption, Ideology, and Populism. The Rise of Valence Political Campaigning], l’auspicato tramonto delle ideologie alla fine ha lasciato un vuoto e ha privato la dialettica sociale di una tensione verso il lungo periodo. «Dopo avere passato anni a parlare dei mali connessi a una forte polarizzazione ideologica, ci ritroviamo senza alcuna narrazione forte», scrive Curini. […] Il problem solving si è rivelato un gioco che può appassionare le élite e la stretta cerchia degli addetti ai lavori ma ha il difetto di produrre una comunicazione fredda e di azzerare quel bisogno di utopia che comunque il cittadino globale ancora coltiva. Private quindi di quello che abbiamo individuato come «il sale», le democrazie occidentali oggi appaiono a Curini disarmate e più deboli di fronte all’offensiva del populismo, a suo modo ferocemente ideologico ma capace di una comunicazione calda.
Per Di Vico si tratta di evitare nostalgie, ma di conservare «i valori “caldi”»: «Non i valori del passato ma i principi del nostro tempo», dice Di Vico, che si declini in «un progetto di società che va offerto ai nostri uomini (e donne) dimenticati». Eccola qui, la questione politica del tempo in cui viviamo.
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