«I’m the only one who sees the whole picture for exactly what it is», Boris Yelnikoff in Woody Allen, Basta che funzioni.
L’Estonia dimostra di avere una visione d’insieme. Su se stessa e su ciò che si muove a livello globale, in questa grande transizione nella quale siamo immersi, carica di aspettative e anche di questioni politiche, che curiosamente la politica sembra non volere o potere interpretare (o entrambe le cose).
Una visione d’insieme, che non può non essere globale. Ciò che riguarda l’intelligenza artificiale, ad esempio, e la riflessione che l’Estonia ha avviato sperimentando i pulmini che si guidano da soli, dimostra che l’AI non si guida da sola, che va affrontata e regolamentata sotto il profilo giuridico, considerando le conseguenze e valutando opportunità e rischi. Anticipandoli, ove possibile. Prendendone le misure prima che si affermino.
A noi che siamo abituati alla rincorsa, un messaggio rivoluzionario, che riguarda e mette in gioco il diritto, la filosofia, il ruolo del pubblico.
E le cose, certe cose soprattutto, non si affrontano con l’improvvisazione o con la classica logica dell’emergenza, ma con la consapevolezza di avviare un processo lungo e largo insieme, una strategia poliennale che si estenda a tutti i livelli, in un sistema che politicamente assomiglia all’X-Road, ovvero alla piattaforma che mette in comunicazione tutti i dati e le agenzie che se ne servono («X-Road is the backbone of e-Estonia. Invisible yet crucial, it allows the nation’s various public and private sector e-Service databases to link up and function in harmony», si legge sul sito e-Estonia.com).
Una questione che diventa una missione nazionale, che qualifica un intero paese. E nel loro piccolo gli estoni innovano, parecchio, e continuano a farlo per qualificare un sistema pubblico e, insieme, per creare un habitat per il mondo delle imprese, a loro volte caldamente invitate all’innovazione.
La piccola scala li ha proiettati su quella grande, per trovare un senso della misura e insieme un’ambizione che era necessaria per uscire da un passato così ingombrante e pervasivo, trasformando un microcosmo in qualcosa che possa competere nel macrocosmo.
Antivedere le trasformazioni significa buttare se stessi oltre l’eterno presente, tra la rendita e il panico, a cui a volte è confinato il nostro discorso pubblico. Non è tutto, la digitalizzazione, è ovvio che non possa esserlo. E non è nemmeno esente da contraddizioni e dal rischio di ridurre alcune disuguaglianze aumentandone, inconsapevolmente, altre.
Perciò insisto sempre che al massimo di innovazione debba corrispondere al massimo delle garanzie, perché l’intelligenza artificiale non sbaragli la solidarietà umana, come possiamo vedere in ogni processo di trasformazione che è già in atto, dai lavoretti al low cost all’economia del gratis e dello sfruttamento, tanto innovativa da recuperare l’antico concetto del cottimo e creare un abisso tra chi sta bene e chi corre tutto il giorno per mettere insieme il pranzo con la cena.
L’estensione dei servizi deve accompagnarsi sempre a un’estensione del benessere e la distribuzione proprio della logica di piattaforma deve sempre corrispondere a una redistribuzione delle opportunità e del reddito: se ci pensate, quei nodi della rete possono parlarci di legami ma anche di persone che nei nodi restano impigliate.
L’Estonia si preoccupa dei propri dati e nella questione dei big data la politica ha dormito a sufficienza, per quanto riguarda la loro proprietà e la disponibilità di servirsene, con un rovesciamento che vede singoli proprietari privati ben più attrezzati degli Stati e delle agenzie pubbliche.
L’accessibilità stessa alla rete è stata normata nel 2000 ed è presto assurta a dignità costituzionale. Così come lo è diventata la questione della trasparenza, un algoritmo che serve a rompere o comunque a limitare il «meccanismo» della corruzione che pervade il nostro mondo (penso alla serie Netflix che si chiama così, O mecanismo, e che parla della vicenda brasiliana e però immediatamente globale dell’«Operazione Lava Jato», che chi segue questo blog conosce già). Con ciò, una rete così consente di valutare davvero la lealtà della concorrenza, altro tema che per noi sarebbe fondamentale affrontare.
Esistono rovesci di queste medaglie e lo si vede dall’opacità della questione della e-residenza, offerta a operatori economici di tutto il mondo, di cui non si capisce esattamente la finalità e di cui forse l’Estonia ha sottovalutato i rischi, se è vero che tutti coloro che ne parlano si precipitano a spiegare che l’Estonia non è e non sarà mai un paradiso fiscale. Il rischio però è che si aprano dinamiche di riciclaggio e si dia ospitalità ai furbi che in tutto il mondo cercano posti e porti sicuri dove ripararsi e far fruttare le loro ricchezze, a discapito di chi non ne ha, di un welfare sempre più gravoso da finanziare, di comunità che a poco a poco si dissolvono o si chiudono in se stesse.
Un paese periferico insegna qualcosa a chi è stato al centro dell’economia mondiale e sta perdendo posizioni su posizioni, per mille ragioni, tra le quali la propria incapacità di investire e di investire non solo economicamente (e, ovviamente, non solo di «tagliare») sulle sfide che stanno cambiando il mondo («ma noi no», come dice la canzone). Un paese colonizzato da sempre che si è posto il problema di come mantenere un proprio punto di vista e conservare un ruolo, in un contesto nel quale è sempre più difficile difendere e valorizzare una propria specificità. Un paese che ha cercato la soluzione nel futuro, non in un passato che non funzionava. Che ha fatto «tabula rasa», come forse anche noi, non solo dal punto di vista tecnologico, in molti casi dovremmo fare, sapendo però scegliere ciò che andava messo in testa alle benedette priorità, sempre evocate e mai definite. E che ci ha lavorato per anni, con costanza, senza guardare al colore politico di chi sosteneva il programma, perché era troppo importante non fermarsi e continuare su quella strada.
Tornato a casa, ne scriverò ancora. Cercando di capire se è possibile, in qualche modo, trovare l’Estonia in Italia. Mutatis mutandis, certo, e però cambiando davvero.
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