Oggi parleremmo delle isole di plastica che si allargano nell’Oceano, delle bagnarole delle migrazioni che attraversano bracci di mare, delle isole della finanza e dei tesori nascosti, puntini sulla cartina che si muovono alla velocità della luce, pur rimanendo immobili.
Nel romanzo di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, Isola (Iperborea), le isole galleggianti sono raccontate così:
Abbi mi aveva insegnato a collezionare isole galleggianti. Quella del Re dei venti, di cui narra Omero, fu la prima. Non ce ne sono di più antiche, nella letteratura europea, ma dopo ne sono arrivate parecchie. La mia collezione era ricchissima.
Alcune erano state costruite dall’uomo, come le isole di canne degli uros, nel lago Titicaca, le loro dimore galleggianti. Altre si erano formate naturalmente nel letto di grandi fiumi e scendevano verso il mare, a volte popolate di alberi e vita animale. C’era l’isola in cui approdò San Brandano con i suoi monaci irlandesi, e che risultò essere una balena. Le isole evocate dai marinai scozzesi per calmare la loro sete di terra, che risplendevano tra banchi di nebbia. I paradisi galleggianti della mitologia cinese e le isole fluttuanti dei celti, abitate da ombre. Dovunque, sempre, gli uomini avevano sognato isole galleggianti, le avevano trovate o costruite; la storia era attraversata da una miriade di migrazioni geologiche, isole mitologiche, letterarie, tecnologiche. Un’intera flotta. Mi sembrava di vederla, con Eolia in testa.
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